Vi è una giustizia nel sangue con il
quale si nasce? In epoca moderna forse non più, ma certamente
esisteva durante la Francia rivoluzionaria, la Francia del terrore e
dell'orrore, dove lo schiavo divenne padrone a suon di omicidi e vili
azioni depravate di bestie mascherate da giustizieri. I nobili, ormai
messi alla gogna da una sete di perverso senso di libertà, furono
banditi proprio per via del liquido blu che scorreva nelle loro vene,
viscoso come lo erano state le loro follie lussuose colpevoli, data
l'ostentazione, di aver condotto il popolo ignorante al terrore che
sfociò nella ben nota lama della ghigliottina. La furia omicida di
anni poveri trovò il suo culmine nei primi anni '90. Anni nei quali
furono condannati e giustiziati i reali di corte, coloro i quali si
erano macchiati di ignavia e sfrontata leggerezza davanti ai reali
bisogni di un volgo ignorante e facile preda di contagi ideologici e
superiorità oratoria. E fu in questo clima che Eufrasia e Venanzio
si mossero, al fine di trarre in salvo l'erede al trono, poco meno
che un bambino, dalla crudeltà propria del popolo assetato di
perfidia e riscatto. Luigi Capeto, o Carlo, erede bimbo di otto anni,
strappato all'amore materno, assieme alla sorella, e costretto a
subire le perversioni di sadici maniaci mascherati da promulgatori di
leggi giuste ed eque. Libertà, fraternità e uguaglianza sarebbero
state, pochi anni dopo, le tre parole fondamentali derivanti da una
rivoluzione scaduta nel fango di un sangue versato a fiumi, ma nulla
di quei motti fu ravvisabile nel 1793; fu in quell'anno che Eufrasia
comprese la vita oltre il lutto di un duplice aborto mai superato e
fu in quello stesso anno che Venanzio decise di donare la propria
vita in favore dell'unica donna in grado di suscitare in lui un
sentimento di profondo amore e rispetto.
Tornano gli eroi neri e crudi del
Veleno del cuore, tornano Eufrasia Des Fleuves e Venanzio Sauvage in
quello che ha tutta l'aria di essere un romanzo storico che di
romanzo sembra non aver nulla. Perfettamente intessuta nelle trame
realmente cucite dal tempo, l'opera di Barbara Risoli si innalza sul
primo capitolo della saga per stile, linguaggio e assoluta aderenza
ai fatti. Più volte, durante la lettura, ci si chiede quanto sia
stato inventato dall'autrice e quanto sia stato, invece, creato dalla
fantasia perversa e meschina dell'uomo reale. Il bimbo erede morì
oppure fuggì alla perversione del vecchio schiavo popolano? Le
guardie reali si ribellarono alla rivoluzione, tentando modi e
sotterfugi per salvare il salvabile, oppure furono essi stessi parte
integrante della follia che imperversò per le strade parigine degli
anni bui della rivoluzione? Eufrasia e Venanzio esistettero davvero
oppure sono mera fantasia per donare una sorta di aura romantica a
ciò che la storia dipinge come atroce e insensato? Come ne La Stella
d'Oro, la Risoli riesce a sconvolgere le certezze storiche del
lettore, tramite una bravura davvero fuori dagli schemi, scuotendo
nervi fino ad allora coperti dagli studi adolescenziali atti a
produrre un velo di conoscenza labile e confusa. Lo stile sempre
fedele a sé stesso, seppur leggermente differente tramite qualche
piccolo accorgimento capace di migliorare qualcosa di apparentemente
perfetto già nelle prime battute, l'autrice dona linfa nuova a una
storia eviscerata da altri autori, ma mai con la stessa passione e
cura. Scrutando, ancora una volta, l'animo umano e le relazioni
interpersonali di una famiglia o di un gruppo sociale nel quale
dinamiche ideologiche vanno per forza incontrandosi e scontrandosi,
la Risoli intesse una trama capace di avvolgere il lettore come una
serpe avvinta alla propria vittima. Come nel Veleno del cuore, anche
nella Giustizia del sangue la scrittrice indaga e sottolinea
l'importanza del dialogo e nel secondo capitolo più che mai.
Eufrasia non è più figlia, infatti, bensì moglie e madre, seppur
negata da un Dio assente che, ricordiamolo, ricorre sempre nelle
opere della Risoli quasi a voler sottointendere un libero arbitrio
obbligato dall'ignavia di un Signore al quale dare rispetto per la
vita donata. Se nel primo capitolo della saga, quindi, ricorreva
l'importanza del confronto tra genitore e figlio al fine di educare,
prevenire colpi di testa dati da un'immaturità celata dietro alla
ribellione dell'adolescenza e della giovinezza, nel secondo
appuntamento di tale duologia il concetto fondamentale è preservare
l'amore che ha unito due persone affini in carattere ed eventi.
Troppo spesso, maggiormente in epoca moderna, i matrimoni subiscono
fallimenti clamorosi proprio a causa di orgoglio, convinzioni errate
e mai fugate, dolori inespressi e coadiuvati da una sorta di
indifferenza data, forse, dall'incapacità di sostenere lacrime e
sofferenze altrui. La centralità di un unione dovrebbe essere
composta, appunto, dalla sapienza nell'accettare le debolezze nella
coppia, facendole proprie, assumendosene le responsabilità e gli
oneri che un matrimonio impone. Troppo spesso la pigrizia di indagare
oltre il superficiale, o il terrore di trovare qualcosa che va al di
là della propria comprensione, causa delle fratture che col tempo
divengono insormontabili e prive di risoluzione. Ed è questo che,
neanche troppo velatamente, sostiene la Risoli tramite la coppia
Eufrasia-Venanzio. Ma vi è anche l'aspetto contrario, nel romanzo,
ed è la fiducia che si può venire a instaurare tra due persone
seppur legate da un sentimento nuovo, precoce e privo dell'esperienza
data da una conoscenza reiterata nel tempo. Nella coppia
Xavier-Lisette, infatti, si assiste alla partenza dell'uomo e alla
condiscendenza della donna, uniti da un filo conduttore che è
profondo affetto nonché profonda maturità nel fidarsi l'uno
dell'altro, affidando al fato la vita di entrambi perché consci di
non aver potere su tale aspetto. Dura è la denuncia, invece, che
l'autrice muove nei confronti degli uomini deboli, incapaci di
provvedere alla propria fortuna se non imbeccati dagli eventi e dalla
forza caratteriale altrui. Aldo, così come il nobile Saux, sono
personaggi sconfitti, moralmente inutili, nonostante il primo
dimostri una certa furbizia, a volte, comunque mal gestita per
pigrizia o incapacità. La maternità perduta, infine, svela parte
dell'animo femminile che, per quanto forte e indipendente, può
subire freni e arresti bruschi perché dolore latente che graffia il
cuore quasi attentasse alla vita stessa. Contrapposta a questo
sentimento, però, vi è anche la capacità della donna di saper
donare il medesimo amore, seppur in maniera differente, ad altre
persone, altri bambini, altri innocenti, dimostrando come l'istinto
materno possa prevalere sulle parole e le convinzioni di una vita.
Insomma, l'ultimo capitolo della saga francese della Risoli è
un'esplosione, fuochi d'artificio che illuminano un cielo buio,
quello dell'editoria, tentando di far luce sui grandi talenti
nostrani che ancora non sono stati portati in alto dalla meritocrazia
che agognano e a cui speriamo tutti. Prima o poi accadrà...
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