Al è diventato l'amico più caro di
Giovanni. Conosce tutto e in base a questo decide cosa bisogni fare,
sa di cosa l'uomo necessiti, cosa debba pensare o ricordare. Al è
colui che ha osteggiato Giovanni non consentendogli un solo respiro
senza la sua ombra a incombere. Eppure è amico, perché forse
l'unico che riesca a comprendere gli sbalzi d'umore a cui l'uomo è
soggetto. E Luca, il figlio di Giovanni, è costretto a vivere in
simbiosi con lui, come se fosse di fatto un altro membro legittimo
della famiglia.
Al è dispettoso, suggerendo a Giovanni
di alzarsi di notte alla ricerca di cibo, obbligandolo a vedere nelle
persone ciò che invece non c'è. Al è tutto, ormai, e ha occupato
ogni stanza della casa, ogni loro pensiero, governando ogni singolo
movimento fino al nulla. Come sia giunto nessuno lo sa, è solo
possibile arginare i suoi effetti devastanti che, come un terremoto,
lasciano spossati e annichiliti. Al non è un uomo, come molti stanno
pensando. Al è Alzhaimer e ormai Giovanni è nelle sue grinfie da
dieci lunghi anni. Come Luca, costretto a una vita che mai avrebbe
immaginato.
Marco Valenti è uno scrittore. Ma
anche un figlio. Ma anche un uomo con le sue debolezze e i suoi
pensieri. Marco Valenti ha scritto le sensazioni, le paure, gli
sconforti propri di chi ha combattuto a lungo una lotta impari contro
una malattia subdola, capace di attaccare fino a distruggere. Solo
chi ha camminato lungo i viali dello sconforto di Al può comprendere
a fondo le ansie di quest uomo, costretto a uno spettacolo che tutti
rifiutano, a cui nessuno è in grado o vuole partecipare. Come dare
torto quando, come giustamente il Valenti ci fa notare, viviamo in un
mondo dove è più facile occuparsi del male oltreoceano piuttosto
che quello in casa propria? “Vuoi davvero che sia la gente che su
facebook ti dice che se non metti il mi piace a un bambino down sei
un mostro a doverti comprendere?” E fa riflettere. Dio se fa
riflettere. Perché è vero che esiste superficialità nel prossimo.
È vero che molti si dileguano davanti a un male, convinti per
ipocrisia che a loro non capiterà nulla se prenderanno le distanze.
E allora il condannato a morte rimane solo. E allora chi è costretto
per natura a doversene prender cura rimane solo. Vedere avvizzire
colui che ha donato la vita, osservarlo regredire a uno stato più
che infantile, dove un tovagliolo può diventare un telecomando e un
bambino un membro della propria famiglia. Leggendo Valenti si
intuisce il calvario a cui è costretto un figlio, a cui lui stesso è
stato costretto, con cui molti di noi hanno dovuto combattere. Perché
l'Alzhaimer non è una malattia che prende e porta via in poco. No, è
più subdolo. Al è un fedele amico che si attacca come la gramigna,
che distorce aspetti, parole, sogni, ricordi. Al invade tutto, non
solamente la mente del malato. E non c'è scampo per chi deve vederlo
in azione. Parlo di costrizione perché, anche se molti reputano
insensibile e inumano il discorso, è proprio così che il familiare
si sente. Non si ha più una vita, per lo meno quella che si è
sognata, costretti a un percorso del tutto differente e incentrato
alla cura di qualcosa che divora e non lascia scampo. E allora il
futuro diventa un buco nero, dove finiscono, per non far più
ritorno, soldi, affetti, conoscenze, indipendenza. Si dice che nel
momento in cui un genitore sta male si debba dare a lui tutto ciò
che ha donato dalla nascita alla crescita. Ed è vero. È giusto.
Nessuno calcola, però, i differenti stati di animo che
caratterizzano i due eventi. Il genitore sa che il bimbo crescerà,
maturerà e diventerà, in un modo o nell'altro, adulto. Il figlio
sa' che il genitore non migliorerà, non crescerà, non maturerà. Il
figlio sa che la sua lotta è destinata a fallire, che ogni sforzo
non varrà a nulla, che nessuno gli dirà bravo alla fine del
percorso e che sarà un'agonia dall'inizio alla fine. Solo,
oltretutto. I Natali in casa di cura, le feste comandate trascorse
tra malati. La solitudine delle notti col pensiero di non uscire vivi
da una situazione pressante e pesante, il magone per un pensiero
sempre più ricorrente. “Io quella persona non la riconosco più”.
Perché si fatica a comprendere che sia così, ma effettivamente il
genitore, come una moglie, come un marito, cessa di essere ciò che
era in salute, divenendo solo un'ombra in un involucro di carne. Ma,
seppur nella solitudine, un familiare deve rimanere in silenzio
perché certe cose non si dicono, certi pensieri non si divulgano.
Poi c'è la liberazione. E le lacrime sgorgano dagli occhi non per la
perdita dell'amato, perché quella si è già vissuta all'inizio
della malattia, ma per la liberazione che la sua morte ha portato.
Una liberazione che è brutta a dirsi, ma che lascia un sapore amaro
in bocca perché la propria vita non sarà mai più come quella del
“prima”. Marco Valenti colpisce, trasmette, insegna. Insegna a
non voltarsi dall'altra parte, insegna a utilizzare la propria
empatia per situazioni più vicine, senza andare dall'altra parte del
mondo che: poveri, a loro chi ci pensa? Forte la denuncia contro le
istituzioni che, come molti parenti, lasciano soli, fanno diventare
avari, suscettibili e cattivi. Forte anche il rimprovero alla
burocrazia, lenta e disagiata, carica di cavilli che non hanno
ragione di essere, non in determinate situazioni. Inutile dire che
RIP lascia un vuoto nello stomaco, un tarlo nella mente, un senso di
impotenza che dovrebbe indurre alla riflessione e a una presa di
coscienza dura. Ultimo, ma non ultimo, l'invito di sostenere la
Comunità di Sant'Egidio, associazione volta ad aiutare, che
evidentemente è stata vicina al Valenti durante il bisogno come lo
continua a essere per tanti altri dimenticati e abbandonati. La
maggior parte dei proventi del diritto d'autore legati a questo libro
verranno devoluti a loro, nella speranza che non si sia più soli
davanti ad Al o chi per lui. Toccante, emozionante, scritto in
maniera chiara, sentita, RIP è assolutamente da leggere.
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