Antarica è un regno lontano, un regno
incantato. Il regno delle fiabe con le quali tutti noi siamo
cresciuti e il regno che vorremmo i nostri figli leggessero e
conoscessero. Perché? Perché mediante Antarica è possibile
conoscere la psiche umana, la stessa che ci è stato insegnato a
indagare per conoscere la morale e il giusto comportamento per vivere
nel mondo reale. Come nelle favole, spesso cattive e saggiamente
spietate, dei fratelli Ghrimm, Antarica e le sue leggende emozionano,
avvincono, fanno spalancare la bocca, oltre ad aprire la mente,
fornendo la maniera adatta a comprendere il bene e male in ogni sua
sfaccettatura. Cinque fiabe, quelle scritte dal Daz, pseudonimo di
un autore a molti ancora sconosciuto, autoconclusive ma intrecciate
l'un l'altra da piccoli particolari evocanti la precedente. Una trama
ben studiata, e splendidamente intessuta, rende le leggende di
Antarica favole capaci di evocare un mondo intero, proprio di un
regno lontano che quasi si vorrebbe aver la possibilità di
conoscere. La regina Isadora, talmente bella da rimanere accecata
dalla propria vanità, apre la strada alla conoscenza, introducendo
il piccolo o grande lettore in un regno incantato ben lungi
dall'essere il fatato bosco delle fate. Densa di magia e mistero,
Antarica narra le vicende di un soldato affetto da una grave
codardia, desideroso solo di poter essere più coraggioso e narra di
un re, Re Quinto, destinato a indicare la strada dei desideri a
chiunque entri in possesso delle sue facoltà elettive, tramutate in
una bellissima e stranissima bussola incantata. Ma vi è anche il
cantastorie vestito di fieno e il pesce dei desideri, a far da
cornice alle leggende del regno creato dal Daz. Storie di Antarica,
riprendendo lo stile antico di fiaba, con lo stesso intento di voler
insegnare una morale forse troppo spesso perduta, in epoca moderna,
soppiantata dai beni di lusso quali televisione e videogiochi,
propone al genitore lo strumento adatto a indicare al proprio figlio
la giusta via da percorrere. La stessa via, d'altronde, che al
genitore stesso fu mostrata dal suo predecessore, andando a ritroso
fino alla notte dei tempi. Se è vero che la globalizzazione rende il
mondo tecnologico privo di valori forti, è pur vero che i bambini
necessitano di essere istruiti sempre e comunque nelle stesse maniere
che hanno reso la società odierna mondo sul quale camminano persone
ancora desiderose del bene per il prossimo. Senza un'adeguata
istruzione ed educazione, difficilmente le nuove generazioni saranno
in grado di discernere il giusto dallo sbagliato. Da che mondo è
mondo, le favole hanno sempre assolto al proprio dovere di primo
insegnante mediante la morale insita in ogni propria storia ed è
bellissimo che nell'epoca moderna un ragazzo tenti di riproporre lo
stesso insegnamento mediante un linguaggio in grado di giungere al
cuore del piccolo lettore con semplicità ma rigore. Ho immaginato di
leggere Storie di Antarica a mio figlio, un giorno, prima di vedergli
chiudere gli occhi dopo una giornata di faticosi ed estenuanti
giochi, e mi è spuntato un sorriso. Perché credo che lo farò. E
sono tornata bambina, ripensando alla storia di Giacomino e il
fagiolo magico, ripensando alla Bella Addormentata, quasi invidiando
il Daz per la bravura che ha dimostrato a inventare un intreccio
così ben fatto di fiabe dense di significato. Non è semplice
parlare ai bambini, ma l'autore lo fa con una semplicità che lascia
sgomenti. A chiunque sia genitore, consiglio di acquistare Storie di
Antarica, leggerne il contenuto e poi iniziare un percorso di intima
lettura con il proprio figlio la sera prima di farlo dormire. Per
insegnare con amore, condividendo, mediante la lettura, un momento
che il bambino difficilmente dimenticherà durante la sua vita. Anzi,
che forse getterà le basi per una tradizione perduta e che invece
farebbe davvero bene a chiunque.
La saga di Dre Walker by CK.Harp
martedì 29 aprile 2014
lunedì 28 aprile 2014
Finché suocera non ci separi (Cara, ti odio!) di Corinne Savarese
Annabella è stata debellata. La sua
egemonia distrutta, infranta, persa in mille pezzi dissolti
nell'aria, come le ceneri del nemico. Finalmente Daphne e Andrea,
sposi, si lasciano andare ai bagordi del viaggio di nozze, alle
bellezze della vita di coppia, alla fantasticheria derivante
dall'esaltazione del momento. È tutto un tripudio di ricchi premi e
cotillons, al ritorno in casa: la loro casa. Andrea, galvanizzato dal
ritorno, Daphne distrutta dal viaggio; i due si abbandonano sul
letto, pronti per un riposo. Un unico particolare da sbrigare prima
di lasciarsi andare al meritato ristoro dopo tanto gozzovigliare:
controllare i messaggi in segreteria. Ed è lì che il gelo cala,
paralizzando gli arti di Andrea, forse inconsapevolmente conscio del
dramma che si sta per consumare entro le mura domestiche. Il sipario
cade rovinosamente a terra, travolgendo gli attori coinvolti nella
commedia “Daphne e Andrea, the revenge”. Perché Clarissa e
Giustino stanno per arrivare. Clarissa e Giustino. Due nomi, una
promessa. “Tesoro, amore della mamma, arriveremo per conoscere la
tua sposa!” E sarà come l'agnello di Dio che toglie i peccati del
mondo abbi pietà di noi. E saranno le piaghe d'Egitto senza il caldo
torrido del sole africano. No, niente Africa. Clarissa viene dai
Caraibi con furore, altroché città e governanti. Psicoterapeuta
affermata, con tanto di lacché al seguito, Giustino suo marito, per
l'appunto, Clarissa sarà la suocera che qualsiasi nuora vorrebbe
infilzata stile bambolina voodoo da mille spilli più uno, tanta è
la sua tracotanza nell'essere in ogni dove, in ogni momento. Un dio
sceso in terra. Ma uno di quelli che ti fanno rimpiangere di essere
ancora vivo e di non esserti estinto assieme ai dinosauri durante
l'era glaciale.
Torna Corinne Savarese e tornano i
personaggi di “Cara cognata ti odio!”, ancora più irriverenti,
ancora più stressatamente spassosi. In questa nuova puntata della
saga del momento, la Savarese si spinge oltre la semplice simpatia
dimostrata nel primo libro della famiglia Borghi/Borgia. Strisciando
sottile come una serpe nei meandri di un rapporto difficoltoso, quale
quello tra suocera e nuora, l'autrice testimonia in maniera
puntigliosa, puntuale, ficcante e terribilmente dissacrante quanto il
proprio ego possa emergere ai danni del prossimo. Se in Cara cognata
ti odio Annabella, sorella di Andrea, rappresentava l'ostacolo,
l'elemento di disturbo, disturbata lei per prima da mille conflitti
interni dovuti a un passato non propriamente sereno, in Finché
suocera non ci separi Clarissa rappresenta l'incubo che nessuno
vorrebbe vivere in terra. Rievocando quasi gli scenari apocalittici
di Nightmare, la Savarese descrive in maniera assolutamente perfetta
cosa siano capaci di fare il vizio, la tracotanza e la potenza di un
ego smisurato abituato a ottenere tutto ciò si desideri mediante una
scaltrezza quasi impossibile anche solo di immaginare. Apparentemente
una commedia dell'assurdo, caratterizzata da personaggi astrusi e
poco credibili, Finché suocera non ci separi narra, invece, proprio
la realtà familiare di molti. Si è portati a pensare che alcune
cose accadano soltanto nei film e nei libri, ma indagando in ogni
famiglia è facile rendersi conto quanto, invece, molte volte le
situazioni quotidiane riescano a superare di gran lunga il filo
interminabile della fantasia. La violenza psicologica, quella vera,
non appartiene soltanto ai rapporti uomo-donna, e non è una
prerogativa di vite altrui, lontane dal proprio contesto sociale. La
violenza domestica viene perpetrata in ogni dove, da qualsiasi
persona e in ogni modo possibile. E per assurdo, la figura della
suocera si presta in maniera disarmante a tale ruolo, perché forte
di una posizione privilegiata rispetto alla nuora e al figlio. La
suocera è grande, esperta, potente, colma di amore. Profondamente e
attivamente mossa dalle sole parole “amore” e “aiuto”,
infatti, tale figura può tranquillamente tessere e intrecciare
rapporti, distruggerne di preesistenti, muovendo le fila di vite già
collaudate e serene senza la sua presenza. Costantemente presente, la
suocera può avvalersi del ricatto morale e affettivo nei confronti
dei suoi sottoposti (in questo caso nuora e figlio) uscendo, da ogni
situazione, quale vincitrice indiscussa da una battaglia che lei
stessa ha creato e voluto, perpetrato e concluso, al solo fine di
legittimare un ruolo in decadenza. Complici l'età, l'infrangersi di
una maternità lontana, la dissolvenza di una giovinezza molto spesso
sprecata per via di problemi causati probabilmente proprio da un
predecessore simile a se stessa, la figura ingombrante della suocera
è sfigurata, deformata, quasi fosse il riflesso di uno specchio
nella casa degli orrori. Installandosi in una casa non sua, mediante
scuse plausibili e prive di possibili recriminazioni altrui, la
suocera entra e si insinua nel rapporto di coppia, corrodendolo
dall'interno, gettando le basi per un disastro preannunciato. La
Savarese, in questo frangente, pur mantenendo lo stile frizzate del
primo libro, dimostra una maturità superiore nel suo riuscire a
spiegare, con voce chiara e mai tentennante, le dinamiche proprie di
una violenza che troppo spesso viene consumata all'interno di
moltissime famiglie. Anche in questo caso, nonostante il lettore sia
portato all'esasperazione, agognando una fine lenta e dolorosa nei
confronti dell'aguzzino, l'autrice dimostra come la superiorità del
perdono riesca a salvare una situazione disastrata e priva di
apparente risoluzione. Il perdono è ciò che distingue la tracotanza
dall'intelligenza. Il perdono è lo strumento che eleva l'essere
umano vicino al divino, allontanandolo di netto dall'oscurità del
meschino. Il perdono è ciò che permette la vera introspezione del
prossimo e, in primo luogo, di se stessi, riuscendo a sanare vuoti
incolmabili. Molto spesso rappresenta forse un cedimento, ma la
comprensione è di gran lunga ciò che differenzia l'animale
dall'essere pensante che cammina sulla terra anziché strisciare. Non
tutti posseggono le facoltà elettive capaci e necessarie alla
convivenza tra caratteri diametralmente opposti e ben distinti. Ma,
come avviene in una coppia, il compromesso per una sana e pacifica
unione è rigoroso e decisivo e molto spesso deve giungere
dall'elemento più lungimirante e saggio, non necessariamente più
debole. Nella concezione moderna di uomo, si è portati a pensare che
l'elemento più forte sia in grado di vincere ogni battaglia e che
qualsiasi forma di furbizia sia la chiave intrinseca alla vittoria.
Ma cos'è, in fondo la vittoria? Il poter legittimare un sopruso? Il
poter disporre a proprio piacimento della mente di un altro? Oppure
il saper convivere e sorridere assieme agli altri, forti di ciò che
proprio Dio ha insegnato mediante le sue parole? Quante persone, in
società, cercano di passare per santi andando in chiesa ogni
domenica, macchiandosi poi di delitti o soprusi atroci e deliranti?
Senza riempirsi la bocca di inutili paroloni atti solo a dimostrare
una bigottagine anacronistica e per nulla costruttiva, la Savarese
dimostra come la bontà di un animo puro riesca a squarciare il buio
rappresentato da un dolore divenuto nel tempo cattiveria. L'autrice,
pur facendo ridere fino alle lacrime, quindi, riesce a trasmettere la
voglia di riflessione, l'istinto a elevarsi, l'importanza di una
bontà mai priva di onore e gloria. Al di là, comunque, della
riflessione intrinseca e dell'aspetto intimistico del romanzo, finché
suocera non ci separi è il degno seguito del suo predecessore. I
personaggi si susseguono in spassosi quadretti, facendo indignare,
infuriare, sbellicare dalle risate, quasi desiderando di avere il
potere di penetrare tra le pagine e poter modificare alcune scene
davvero esasperanti per quanto reali. Mediante questo romanzo si
torna, in un certo senso, a quelle commedie delle corti reali antiche
in cui il pubblico era portato a interagire con gli attori,
incitandoli ad agire in maniere differenti, additando il cattivo di
turno, puntando il pollice verso con tanto di “buuuh” a far da
cornice. Corinne Savarese convince, di nuovo, confermando di quanto
talento sia colma. Decisamente sprecata nel self publish, spero
vivamente in un suo possibile contatto futuro da parte di scout di
case editrici grandi, com'è già accaduto per altri talentuosi suoi
predecessori. Il chick lit italiano ha una nuova stella, degna di
brillare come una supernova nei cieli dell'editoria nazionale. E
questa cometa fissa pronta a solcare tali cieli è Corinne Savarese e
il suo Finché suocera non ci separi.
sabato 26 aprile 2014
L'inizio di una favola di Silvia Cossio
L'hotel Piccolo Friuli si appresta a
cambiare dirigenza e, con esso, forse anche tutto il personale. Per
lo meno i dubbi di Ilaria riguardano il suo posto di lavoro,
improvvisamente a rischio, nonostante il suo capo abbia assicurato a
tutti quanti che l'eventualità di un licenziamento è ben lungi
dall'essere reale. D'altronde il signor Claudio è stato
lungimirante, nel momento della cessione: perché mai investire in
altro personale quando si può avere il meglio sulla piazza e già
addestrato? Mancano pochissimi giorni all'incontro con l'anziano
dirigente, il Signor Ramos, e il lavoro si svolge febbrile alla
reception, tanto che Ilaria è costretta a dover rimettere al proprio
posto un impaziente e stupendo sconosciuto. Stupendo è dir poco.
Affascinante, dai profondissimi occhi neri, fisico statuario. Un dio
sceso in terra... Il dio dell'albergo. Si, perché ben presto Ilaria
scoprirà che il bellissimo sconosciuto altri non è che il figlio
del nuovo dirigente. Un figlio dannatamente impossibile da ignorare e
sfacciatamente attratto da lei. Tanto da...
Silvia Cossio conduce per mano il
lettore in una favola d'amore delle più belle e sentite, classica e
nel contempo non troppo scontata. Rispettando i cliché del romance
classico, la Cossio da sfoggio della sua bravura a catturare
l'attenzione e a non farla mai cedere davanti a descrizioni tediose o
prive di abbrivio. Per nulla timorosa di parlare un linguaggio
colloquiale, privo però di qualsivoglia mancanza di stile, l'autrice
intesse una trama frizzante, reale, accattivante ed estremamente
moderna. Emoziona e sa di farlo, puntando i riflettori proprio sui
punti salienti della vicenda, velando di pacata ironia quelli di
minor spessore. Non conoscevo questa autrice, eppure dopo averla
letta provo l'impulso irrefrenabile di andare a scovare e leggere
altri suoi romanzi. Perché mi ha catturata, perché ha lasciato che
evadessi dal mondo reale per immergermi in quello speciale di
un'amore agognato da uomini e donne. Narrando della difficoltà che
nel mondo moderno spesso si riscontra negli scapoli incalliti, non
sempre così facoltosi come il nostro Jonas, di impegnarsi seriamente
in una storia lasciando all'amore l'arduo compito di creare ordine e
pace in un rapporto, la Cossio, fa emergere le differenze abissali e
pur sempre vive tra gli spiriti femminili e maschili che, ahimé,
continuano a essere agli antipodi gli uni dagli altri. Nonostante si
continui a parlare dell'emancipazione femminile e di quanto le donne
si siano sostituite agli uomini anche nel modo di intraprendere le
relazioni interpersonali, si continua ad ascoltare storie di donne
alle prese con uomini immaturi troppo timorosi di impegnare il
proprio tempo in un amore, forse, troppo coinvolgente e colpevole di
avvolgerlo e modificarlo dal profondo. Inoltre si affronta il tema
della verginità oltre la maggiore età, argomento quasi dimenticato
da molti, ma che, pur sembrando quasi un fatto anacronistico, è
ancora ben presente nella società mondiale. Molte sono ancora le
ragazze che tengono a valori intensi e puri quali la loro “prima
volta” e la Cossio ha avuto l'intelligenza di porre tale argomento
in primo piano, dimostrando quanto non sia ingenuità di alcuni
pensare alla verginità in età adulta come a una chimera, bensì a
un evento reale e possibile da riscontrare. Non è tutto sesso e
dissolutezza, nonostante il mondo sia approdato nel 2014. I valori
sono ancora ben presenti e molte donne sognano ancora l'arrivo del
proprio principe azzurro, così come gli uomini ancora desiderano la
donna acqua e sapone, anteponendo una personalità forte e caparbia
alla mera bellezza fisica non supportata da altre qualità.
Ritrovandomi a consigliare vivamente “L'inizio di una favola” e
ripromettendo a me stessa il giuramento di cercare altri romanzi di
questa promettentissima autrice, vi invito a sognare con Silvia
Cossio, evadendo per un pomeriggio nelle suite dell'albergo Piccolo
Friuli. Magari annaspando davanti a un paio di occhi neri, magari
solo immergendo lo sguardo nei paesaggi suggestivi di una città, fin
troppo ignorata in favore delle più famose “cugine”, quale è
Udine. O semplicemente per puro spirito e desiderio di sognare a
occhi aperti una favola ancora possibile. Forse per sempre possibile
a chi è capace di non lasciare inaridire il proprio cuore, lanciando
a briglie sciolte desiderio e passione.
giovedì 24 aprile 2014
Non c'è notte tanto lunga che tu non possa camminare ancora nel sole di Valerio Giovetti
Finalmente il giorno della laurea è
giunto. Ha studiato, è preparata e pronta a sostenere l'esame che
l'ammetterà di diritto nella schiera dei vari dottori che popolano
il nostro paese. Amelia si guarda alla specchio, termina di truccare
l'occhio con la matita nera e pensa che, in fondo, tutto quella
situazione non le interessa. Tutto è al di fuori della sua vita, del
suo pensiero. Ha un marito. Ha una storia disastrata e disagiata alle
spalle. È una vittima e non sarà certamente una laurea a colmare i
numerosi vuoti che l'esistenza le ha inferto negli anni. Finalmente
il giorno della laurea è giunto ed è anche terminato, perché è
pronta, ora, a far ritorno a casa. O forse non proprio a casa.
Accetta di bere un drink con un professore, Gianni Michelini, appena
conosciuto, ma non è nel pieno delle sue facoltà mentali, no? No.
In effetti quando squilla il cellulare, al tavolino del bar dove sta
sostando con l'uomo, in attesa delle loro bevande, Amelia si desta,
si alza e, dopo essere andata in bagno, se ne va. Solo un suo anello,
appoggiato distrattamente sul tavolino, ricorda a Gianni, il
professore, che lei è effettivamente esistita. Amelia scompare, ma
nessuno sembra prestarvi attenzione, mentre Gianni ha perduto da
poco sua figlia e, stranamente, viene folgorato da tale evento. Il
tutto prende inizio da qui.
Strano romanzo, questo di Giovetti,
“Non c'è notte tanto lunga che tu non possa camminare ancora nel
sole”. Un romanzo dal titolo lungo ma dallo scorrere breve,
scorrevole e affatto tedioso. La vicenda, pur partendo dal punto di
vista di Amelia, ben presto si snoda tramite i gesti e i pensieri di
Gianni, uomo profondamente colpito dalla brutalità che, alle volte,
la vita è capace di infliggere a ignari esseri viventi. La perdita
della propria figlia, del proprio sangue; il termine del proprio
matrimonio in conseguenza di un evento scioccante come questo; il
rifugiarsi in una religione non tanto per la comunità su cui è
incentrata ma per la presenza univoca di un essere superiore in grado
di governare le leggi del mondo. Forse Anna, la figlia di Gianni,
ora, è da qualsiasi parte nel mondo a osservarlo, a guidare i suoi
passi, o solamente a sfiorargli la mano nei momenti bui. Non è forse
questo il pensiero che accompagna chi vive abbandonato dai propri
affetti in maniera repentina, inaspettata e, a volte, brutale? Anna
non è morta per una malattia, seppure anche questa comporti pensieri
e tormenti, ma per una tragica fatalità che aumenta il senso di
angoscia del padre, seppur egli tenti disperatamente, anche
inconsciamente, di non pensarci. Ed è forse per questo motivo che
Gianni decide di gettarsi a capofitto lungo la tortuosa strada della
ricerca di Amelia, della sua salvezza, intuendone un dolore latente,
strisciante. Dovuto alla solitudine, alle brutture di cui è stata
fatta oggetto da un destino crudele che, a volte, si diverte ad
accanirsi verso animi fragili. In questo romanzo molteplici sono le
sotto trame che si diramano, sviluppandosi attorno alla narrazione
centrale che è quella della ricerca di una persona scomparsa, ma
anche del proprio animo. Forse, mediante gli altri, ognuno di noi
ricerca una parte di se stesso. Per essere migliore, per comprendere
in fondo cosa il nostro subconscio voglia comunicare al mondo.
Indagando in una società variegata e dalle numerose chiavi di
lettura, popolata dall'omosessualità come dall'omofobia, dalla
velata pedofilia alla tanto osannata ricerca del bene, Gianni scopre
di essere profondamente chiuso in se stesso. Trincerato dietro la
routine che ostenta come una bandiera, la ricerca alla volta di
Amelia rende possibile una sua introspezione. Dopo la separazione
dalla moglie, infatti, l'uomo vive lasciandosi vivere, non essendo
lui stesso l'artefice delle proprie giornate e delle proprie scelte.
Rifiutando, come sovente accade alle persone toccate da gravi
disgrazie o semplicemente dalla fine di relazioni che rappresentavano
il loro normale iter giornaliero, qualsiasi contatto con il sesso
opposto, con l'avventura, con ciò che rende solitamente una vita
degna di esser vissuta. Non esistono relazioni, seppur di breve
durata, perdurano tabù forti e costrizioni mentali che limitano ciò
che dovrebbe esser vissuto con spontaneità priva di vergogna. Come,
invece, dimostra di saper fare l'amico di Gianni, Andrea. Considerato
per alcuni versi immaturo, Andrea rappresenta nel contempo l'angelo e
il diavolo della coscienza di Gianni, o di tutti noi, volendo
ampliare lo spettro d'indagine. Andrea sa e vuole divertirsi, ma è
vittima di preconcetti latenti in ogni persona, nonostante questa si
ostini a considerarsi migliore del prossimo. Numerosi i personaggi di
Giovetti, ognuno però con una propria personalità e con un proprio
ruolo ben definito, atto a testimoniare parte della società italiana
in cui si vive. Forte si evince il contrasto tra i vecchi ancora in
vita, quelli legati alla vecchia generazione fatta di politica e
critica, carica di preconcetti e per nulla indulgente verso il
diverso, e le persone che popolano il mondo moderno, così vario
nell'accettazione del proprio io. In ogni paese vi sono tali
concetti, sempre più evidenti nelle piccole frazioni di città. Ma
tale contrasto è poi proprio solo di questo tempo? Oppure è una
peculiarità riscontrabile nel mondo intero e nella storia passata e
futura? I giovani di oggi saranno gli anziani di domani e i concetti
che noi consideriamo moderni e pregni di significato all'avanguardia,
saranno i pensieri obsoleti che insulteranno le menti giovanili del
futuro. In fondo la vita è un cane in perenne corsa verso la propria
coda, alla ricerca costante del dolore di azzannarla e la gioia di
farlo. Gianni lo comprende, Amelia ne è ben cosciente, così come
tutti noi, in fondo. Giovetti crea un mondo reale, nel suo “Non c'è
notte tanto lunga...” e il significato del suo titolo così lungo e
ostico, all'apparenza, risulta chiaro nelle ultime battute del
romanzo. Un romanzo da leggere per indagare l'animo umano,
comprendere qualcosa in più di se stessi e del mondo che circonda
noi tutti, spingendo alla riflessione e all'accettazione del prossimo
senza calcolare il proprio benessere. Perché tramite il bene, quello
diviene conseguenza naturale.
martedì 22 aprile 2014
Un tramonto a Thera di Emanuela Locori
Thera, città a ridosso sul mare, così
lontana da Mantova, così lontana da Elisabetta. Elisabetta, donna
risoluta, attenta, sensibile, pronta a perseguire l'ideale di bimba
di ripercorrere le orme paterne imitando, del genitore, le gesta e il
mestiere. Thera ed Elisabetta sembrano legate da un filo invisibile,
ma forte e quasi indissolubile. Cosa può far da collante tra la
donna e la terra marittima greca? Il fato. Un fato beffardo, un fato
che disegna, con colori audaci e mai tenui, una storia di amore
intenso, divampato come fuoco improvviso da braci sopite. Un fato
costituito da occhi azzurri e glaciali, carattere fermo e
autoritario, dalle note a volte tenere e delicate, e un mistero che
velatamente ne accresce il fascino. Siamo nei primi anni del 1300, a
Mantova, ed Elisabetta attende al capezzale del padre di poter
conferire con lui circa le sue aspirazioni. Aspirazioni che la
condurranno lontana dalle braccia paterne, lontana dalle terre
conosciute d'infanzia. Accompagnata e sostenuta dalla fedele nutrice,
la donna migrerà a Venezia al fine di diventare medico, praticando
gli studi già iniziati, mettendo in pratica un'esperienza rubata con
gli occhi, udita fugacemente con orecchie attente. Ma... Per
perseguire il suo sogno ci vuole denaro ed Elisabetta non ne dispone
a sufficienza per poter permettere alle proprie aspirazioni di
spiccare il volo come sarebbe loro desiderio. Ed è così che
l'arruolamento sulla nave del Venier sembra arrivare provvidenziale,
quasi come si trattasse di un'occasione studiata dal destino per
aiutarla nell'impresa. Oppure no? Spacciandosi per il mozzo Daniel,
Elisabetta riuscirà a racimolare il denaro necessario al
conseguimento del suo sogno? Emanuela Locori, autrice esordiente con
Delos, ma dalla penna niente affatto tremula o priva di talento,
narra le vicende di una donna forte, perspicace e audace.
Profondamente immerso nel contesto storico in cui è portato a
viaggiare, il lettore viene catturato in un momento dal carattere
gioviale e determinato dell'eroina, dalla sua sete d'avventura,
nonché dalle onde sinuose che la conducono lontana da Venezia e
vicina a un cuore affine. Non è semplice costruire un racconto di
genere storico, specialmente per un autrice che, sulla carta, è alle
prime armi con la narrazione di genere. Eppure il lettore non
percepisce mai, neanche per un momento, il dettaglio che a scrivere
“Un tramonto a Thera” sia un'esordiente. Il linguaggio ricercato,
ma nel contempo non ampolloso, elegante ma non troppo appesantito da
fraseggi complicati, rende la narrazione scorrevole, agevole,
facilmente accessibile a chiunque voglia accostarsi a una lettura. Ed
è questo, in fondo, ciò che serve affinché i lettori si
appassionino a una storia, a un contesto, a dei personaggi ben
delineati grazie all'immediatezza delle scene e al loro susseguirsi
in maniera naturale e mai artefatta. E la Locori possiede una
naturalezza estrema nell'arrivare al centro carminio del lettore, non
lasciando mai che egli subisca sorta di noia o perda un abbrivio
ottenuto fin dalle prime battute. Dimostrando come l'esperienza di
anni di letture e sogni ben sviluppati paghi su innumerevoli studi
stilistici e di tecnica, non supportati da un talento innato ma
creato a tavolino, a volte privi dell'empatia adatta a saper
trasmettere emozioni, l'autrice tratteggia personaggi dai caratteri
forti, decisi, che pagano forse, nelle proprie gesta, la brevità
voluta dal racconto e che troverebbero maggior respiro in un romanzo
che possa fornir loro lo spazio adeguato di cui necessitano e che, a
mio avviso, meriterebbero. Sperando davvero che questo racconto sia
soltanto l'inizio per un'intensa carriera letteraria e narrativa,
date le qualità di cui fa sfoggio Emanuela Locori, edita da Delos
(tanto per non dimenticare che è stata scelta, selezionata e
voluta...) consiglio vivamente la lettura del suo Tramonto a Thera,
racconto dal profumo intensamente romantico e travolgente, condito,
inoltre, da alcune note erotiche che, a dir la verità, non guastano
e fanno ben sperare.
sabato 19 aprile 2014
Il canto del cuore di Macrina Mirti
Domiziana è una fanciulla cresciuta
all'ombra di regole e comportamenti degni di un nobile. D'altronde lo
è, figlia del sovrano Rufo. Siamo nel 569 e le guerre, pian piano,
sul suolo di quella che diverrà Italia, si susseguono. Piccoli e
grandi scontri atti a cementificare egemonie e nuovi insediamenti,
destabilizzando ordini da anni consolidanti e costruendone di nuovi.
Vi sono tangibili minacce a minare la pace del regno di Rufo, ma
Domiziana è una ragazza con mente prettamente adolescenziale,
avvezza all'insubordinazione e incline alla sperimentazione
dell'avventura. Forte di questo suo carattere ribelle, la fanciulla
decide di inoltrarsi nei terreni limitrofi alla villa del padre,
complice un passaggio segreto di cui nessuno sembra essere a
conoscenza. Proprio nel mezzo di un bagno ristoratore nel lago
attiguo alla villa patrizia, però, due barbari fanno la loro
comparsa, le vesti candide della fanciulla in una mano, un ghigno
famelico e maligno dipinto sul volto. È la fine di Domiziana? Verrà
posseduta con forza fino alla morte? Non vi è altra salvezza che il
suicidio nelle acque profonde del lago. Meglio l'ottenebrarsi della
mente per sua mano piuttosto che per quella di uomini scaltri e dai
desideri sordidi fin troppo evidenti. Ma non sarà la fine di
Domiziana, salvata in extremis da Neherem, soldato agli ordini di
Rufo e uomo d'onore. Nonostante il bellatores sia un goto di origini,
infatti, è il primo soldato del sovrano, colui di cui si fida. E
giustamente, dato che, a discapito della pace stessa del regno, egli
porrà fine alla vita dei barbari traendo in salvo una sconvolta
Domiziana. Quell'episodio sancirà l'inizio della fine o l'inizio di
un canto, quello del cuore, capace di avvolgere con la sua melodia
anche l'animo più duro e, all'apparenza, freddo? Tanta la carne al
fuoco, in questo racconto lungo scritto da Macrina Mirti per
“Passioni romantiche”, tante le chiavi di lettura in uno storico
che non ha nulla da invidiare ai romanzi considerarti tali per
lunghezza. La realtà è che “Il canto del cuore”, nonostante la
brevità, cattura ed esalta, lasciandosi leggere in meno di un
battito di ciglia, tanto è ben congegnato. Dal linguaggio colto ma
fluido, Il canto del cuore narra le vicende di una fanciulla che
ancora deve scoprire il mondo ma che ha già conosciuto il dolore
della perdita. Forse è mediante esso che Domiziana crede di sapere
tutto, di aver vissuto tutto e di essere in grado di scrutare in
fondo agli animi delle persone di cui si trova al cospetto. Come ogni
adolescente che si rispetti, d'altronde, convinta in ogni momento di
possedere una conoscenza profonda della vita e del mondo. Ma la morte
riesce a gettare un velo di nitidezza nei suoi occhi, svelando anche
quanto la rudezza dei comportamenti di Nehrem sia dovuta a un
carattere introverso e serio, capace di celare sentimenti grandi e
puri in nome di un rispetto consolidato nel tempo. Perché il
rispetto, a volte, è molto più importante dell'amore stesso. Ogni
personaggio del racconto è ben delineato, come davvero facesse parte
di un contesto di più ampio respiro, come se le parole avessero il
potere di dilatarsi per consentire una conoscenza più dettagliata di
ogni singolo carattere. Mai, durante la lettura, si cade nella noia o
nello scontato. Mai si rimpiange il fatto di non leggere un romanzo
di più pagine, proprio per la sapienza che ha l'autrice di intessere
la sua trama in maniera puntuale e minuziosa, non tralasciando nulla
al caso, saziando ogni piccola curiosità mediante parole ben
studiate e dosate. Il canto del cuore trasmette amore, complice anche
il contesto storico che perfettamente si presta al compito, riuscendo
ad avvolgere la mente del lettore in maniera tale da trasportarlo in
altri luoghi il tempo necessario a conoscere le intricate trame che
nel racconto si sviluppano. Macrina già c'è stato modo di
conoscerla in passato, tra le mie pagine, ma conferma ogni volta
quanto scrittrice sia il nome di cui si può fregiare senza dubbio
alcuno. Consigliato a chiunque, Il canto del cuore è un racconto
godibile adatto a qualsiasi pubblico, anche a quello non avvezzo alle
storie romantiche ma desideroso di essere trasportato nel tempo alla
continua ricerca di emozioni forti date da altri contesti in altri
luoghi. Spero davvero presto di poter godere di un romanza di questa
talentuosa autrice, perché sono certa sarebbe un'altra ottima prova.
giovedì 17 aprile 2014
Rivelazioni di Letizia Draghi
Alessia attende fiduciosa, seduta al
tavolino del bar, che si presenti la donna raffinata che le ha
commissionato il suo prossimo lavoro. Una nuova sala di genere
erotico. Che tipo sarà? E, soprattutto, quali saranno i temi sui
quali la futura architetta dovrà concentrarsi per replicare il
successo ottenuto con la sala delle punizioni di Martini? Incinta,
ancora non si sa se del suo Volto d'Angelo o del suo precedente
amante, Alessia Delfini vivrà nuove ed esaltanti avventure del tutto
fuori dall'ordinario. Più di ogni altra cosa, fuori totalmente dagli
schemi mentali con i quali è sempre cresciuta e vissuta. Letizia
Draghi, già conosciuta al pubblico lettore con le sue precedenti
opere edite da Delos, torna a narrare le vicissitudini della sua
eroina, ormai diventata una sorta di immagine cult della collana
“senza sfumature”. Anche questa volta, come lo è stato nelle
precedenti, mediante la frizzantezza del linguaggio e la classe priva
di volgarità anche nelle scene più calde, la Draghi indaga l'animo
umano rivelando quanto i tabù limitino il vero essere di un
individuo. Come ne “La sala delle Punizioni”, ma ancor di più in
Bodysushi, l'autrice svela quanto i comportamenti e i caratteri
individuali, sovente mal giudicati da una morale a volte pesante,
siano essenziali e parti integranti della società moderna.
Nonostante non siano di dominio pubblico, infatti, molte di quelle
che vengono chiamate perversioni sono stili di vita propri di
moltissime coppie. I ruoli ben definiti in ambito sessuale, così
come i giochi che da essi possono scaturire in un susseguirsi di
piaceri sconosciuti ma non per questo condannabili, sono atti a
testimoniare quanto nessuno abbia il diritto di giudicare il
prossimo, libero e padrone, invece, di esternare in piena libertà la
propria pulsione latente. La Draghi, a tal proposito, è bene attenta
a usare dei distinguo ben chiari tra i vari ruoli che la società
bigotta vede come perversione derivante da qualsivoglia trauma
esistenziale. Vi sono, infatti, moltissime coppie che trovano la loro
perfetta dimensione in giochi che non sempre incontrano il favore e
il gusto degli altri, non rivelando, però al contempo, il fatto che
essi stessi siano condannabili o esecrabili dal punto di vista
sociale e morale. E un punto di assoluta importanza lo si evince nel
momento in cui si spiega perfettamente la differenza tra pulsioni
sessuali tra persone consenzienti e perversioni vere e proprie di chi
prova gusto e piacere nella violenza e nell'utilizzo della propria
forza ai danni di individui più deboli. Gioco sessuale, quindi, non
equivale a violenza carnale o egemonia del più potente. La verità
nuda e cruda, come il racconto stesso lascia intuire, è che in
Italia ancora non vi è quella libertà sessuale che invece sembra
imperare in altri stati. Forse per cultura, forse solo per rispetto
altrui. Non significa che il sesso tradizionale non abbia la sua
valenza, ma si testimonia come anche quello cosiddetto “alternativo”
possa e debba trovare la propria connotazione e collocazione
legittimata nell'universo moderno così all'avanguardia per
tantissime altre cose. Aldilà del fattore sessuale e delle varie
scene erotiche che, come sempre, vengono descritte in maniera molto
sofisticata dall'autrice, “Rivelazioni” rimane una bella storia
d'amore da scoprire e dalla quale lasciarsi trasportare. Sergey
rimane l'uomo russo dal fascino incorruttibile e Alessia la solita
anima romantica, ammansita forse un poco per via della dolce attesa
del piccolo che comincia a crescere nel suo grembo. Di rilevanza
assoluta la tenerezza che dal racconto emerge, come a testimoniare
che nel sesso non vi è nulla di “sporco” o innaturale e che una
gravidanza non ne pregiudica in alcuna maniera l'atto che,
d'altronde, proprio alla nuova vita ha condotto in precedenza. Molti
gli spunti di riflessione, quindi, come in ogni racconto di Letizia,
nonché momenti ilari e scanzonati che, assieme alle componenti
erotiche fanno di “Rivelazioni” un nuovo racconto perfettamente
in linea con la collana erotica più gettonata del momento, ovvero
quella della Delos Digital “Senza Sfumature”.
mercoledì 16 aprile 2014
ll mistero di Owland di Ilaria Sandei
Difficile, veramente troppo difficile
vivere in una realtà come la sua, per Davide. Beh, il problema
fondamentale è scaturito da quando i suoi genitori si sono separati.
È da li che è iniziato tutto ed è li che, in un certo senso, tutto
è terminato. L'affetto tra e dei suoi genitori, per esempio, è
terminato. E anche la sua voglia di stare in casa, di lasciare che le
mura domestiche lenissero ogni piccola sconfitta o esaltassero ogni
infinitesimale vittoria. A scuola, poi, c'è Luca, il bullo, che non
lo lascia un momento in pace. Insomma, sarebbe stupendo lasciare
tutto, abbandonare i pensieri cattivi, trovare una sorta di mondo
parallelo nel quale tuffarsi a capofitto, conoscendo amici veri,
essendo coccolato dall'abbraccio e dal sorriso di adulti buoni e
desiderosi solo il suo bene. E se tutto ciò fosse possibile? Se
quello che sembra un semplice orologio avesse il potere di
catapultare Davide in un universo distante, popolato da animali
meccanici, per esempio? Come evolverebbe la sua vita? In meglio,
sicuramente. Ma è davvero così? Lontano dai suoi affetti, dai suoi
amici più intimi, dalle piccole sconfitte che, comunque, fanno parte
della sua vita... Immerso, poi, in un mistero fitto che lo pone al
centro di un'intricata e macabra storia in cui i bambini scompaiono
improvvisamente dalla città di Owland... No, non può essere una
situazione probabile, un evento possibile, eppure...
Ilaria Sandei, autrice classe 1994
crea, durante i suoi ultimi anni di liceo, un romanzo fantasy per
ragazzi dalle tinte horror ben studiate e riesce, con “Il mistero
di Owland”, a far appassionare un lettore adulto quasi si trattasse
di una piccola Rowling in erba. Scettici? Beh, scordate ogni cliché
del fantasy convenzionale moderno, creato sulla base di Tolkien e
popolato dai soliti gnomi, hobbit e orchi. No, la Sandei ripesca il
vecchio fantasy italiano, quello che per anni ha affascinato schiere
e schiere di bambini, facendolo suo e riuscendo ad accattivare la
simpatia del lettore con semplicità e acume. Il mondo fantastico
degli animali, dei boschi inquietanti, delle piccole città
parallele, della corsa contro il tempo. Un mondo nel quale fidarsi
degli adulti è ancora possibile, in cui gli artigiani invitano i
bambini nelle loro botteghe offrendo loro gioia e piccoli momenti di
felicità, in cui un'amicizia è capace di nascere nel termine di
pochissimi attimi, destinata con tutta probabilità a perdurare in
eterno. La Sandei, in maniera travolgente e per nulla semplice,
immerge il suo piccolo lettore nel mondo incantato di Owland, per
nulla bello e fatato come l'isola che non c'è, nel quale avvengono
omicidi, nel quale i bambini vengono rapiti da un folle e tramutati
in animali meccanici, testimoniando come non bisogni fidarsi di
nessuno, neanche in tenera età, e che nulla è mai per come appare. E nonostante la giovinezza di
questa autrice, i temi trattati all'interno del Mistero di Owland
sono chiari, diretti e molto profondi. Aldilà della bella storia che
tesse l'autrice, infatti, vi è l'universo quasi accantonato del
bambino in procinto di diventare adolescente. Le speranze e le
sofferenze che ne popolano i giorni, infatti, tendono sempre a essere
sottovalutate dagli adulti che, invece, dovrebbero prestare molta più
attenzione agli indizi psicologici che i loro figli lanciano. Troppo
spesso inclini a un egoismo non voluto ma quasi necessario, infatti, i
genitori sono volentieri inclini a punire i propri figli per qualche
parola di troppo, per quella che viene travisata e intesa come
insubordinazione, magari causa effetto di un principio di ribellione
adolescenziale dovuto al carattere o agli ormoni in subbuglio. Beh,
molto spesso non è così. Molto spesso i discorsi accorati, le
lacrime cocenti di un dodicenne e il suo urlare frustrazione e
rabbia sono indice di una sofferenza interna, di una voglia di
richiamare un'attenzione non donata perché prede, gli adulti, della
quotidianità e della routine che troppo spesso li inghiotte,
travolgendo affetti e relazioni. La Sandei, in questo, è molto
chiara e se è vero che nelle favole vi è sempre racchiusa una
morale, nel romanzo fantasy di Owland vi è un significato ramificato
e ben visibile. La richiesta di comprensione, riconoscendo il bambino
e il ragazzo come una persona e non come un individuo troppo piccolo
per capire. La richiesta di pazienza e attenzione, atte a valorizzare
il carattere e la personalità in formazione del ragazzino che si sta tentando di formare. Crescere un ragazzo non è soltanto il fornirgli vitto e
alloggio, ma anche rappresentare un porto sicuro in cui rifugiarsi, cercando di non
dimenticarne mai l'importanza. Chi meglio di una ragazza appena
uscita dalla fase adolescenziale può testimoniare tutto ciò? La
Sandei dimostra una maturità, in questo suo libro, davvero
ammirevole. Inoltre devo ammettere che mi ha riportata indietro di
anni, a quelli che quando ero piccola chiamavamo libri game.
Indovinelli, rebus, cruciverba e un'infinità di indizi atti a
divertire e incuriosire il piccolo e il grande lettore. Ogni capitolo
è contraddistinto da due pagine in rima, atte a svelare parte della
trama che ci si accinge a scoprire nella prosa, fornendo anche la
possibilità, per il ragazzo, di interessarsi non solo al libro
classico, ma anche al testo poetico che in età moderna è fin troppo
bistrattato. Il mistero di Owland, quindi, non è solo una buonissima
lettura per i bambini cresciuti che iniziano ad affacciarsi alla loro
epoca adolescenziale, ma anche un valido manuale di introspezione per
il genitore, che ha la possibilità di indagare nel proprio animo
valutando le proprie azioni nei confronti dei propri figli. Una
visione superficiale della lettura vorrebbe che questo libro
rimanesse relegato a un pubblico adolescenziale, io credo invece che
sia una lettura adatta a chiunque. Non fosse altro per intenerirsi
tornando indietro di parecchi anni, alla ricerca del bambino che è
annidato nel proprio cuore, soverchiato, magari, da anni di
quotidiano e stress e desideroso di uscire allo scoperto per
divertirsi ancora e ancora. Magari col proprio figlio o magari da
solo. Nessuno cresce mai abbastanza...
lunedì 14 aprile 2014
Due di Andrea Biondi
Romano? Si? Romano, ricorda le
distanze.
E Romano alle distanze sta attento.
Inizialmente, per lo meno. Il problema è che questa Giulia è così
maledettamente bella. Anzi no, è proprio figa! E il fatto che
dimostri di provare un qualche recondito interesse per lui è un
evento a dir poco scioccante, sconcertante, se vogliamo. Potrebbe
rovinare tutto, con il suo solito modo di fare, Romano. In fondo,
però, a pensarci bene... Lui rischia di morire! Lui, diamine,
rischia sul serio di morire. Questo è quello che gli ha detto la
ragazza, questo è quello che gli indizi nella sua vecchia casa di
montagna sembrerebbero confermare. Storie di fascisti, storie della
sua famiglia, di cui lui sembra totalmente ignaro. Suo nonno come
diavolo è morto? Possibile che lui non sappia in che modalità ha
visto la sua fine il padre di sua madre? Impossibile, in effetti...
Eppure questa Giulia sembra saperne più di lui. Ma poi, questa
Giulia, chi è? Già, chi è Giulia?
Romano? Si? Romano, le distanze!
Come definire il romanzo di Andrea
Biondi? Irriverente e ironico thriller? Inconsueto storico dalle
tinte umoristiche? Come? Una vera definizione non c'è. Si può dire,
però, che si tratta indubbiamente della meravigliosa prova
scrittoria di uno autore, ora emergente, che al suo romanzo d'esordio
dimostra una bravura inconsueta nel catturare il lettore
incuriosendolo nel divertimento di scoprire i suoi personaggi.
Diciamocelo. Solitamente solo i thriller d'oltreoceano fanno ridere,
per lo più, oltretutto, quelli che vengono trasposti in versione
televisiva o cinematografica. È raro che un autore italiano riesca
in un'impresa tanto ardua e il fatto che, tra le righe di questo
romanzo, sia rintracciabile ciò che della nostra Italia è ancora
puro, il dialetto, è una marcia in più che non guasta
assolutamente. Attingendo alle radice profonde facenti parte il
lettore, infatti, Biondi consente a chi lo legge di immedesimarsi,
calandosi nei contesti descritti, anche in quelli storici. Due non è
solo un titolo per un romanzo ben scritto e talentuosamente
intessuto, infatti, bensì rappresenta tutto il dualismo che la vita
di una persona rappresenta. Due sono i contesti storici narrati, due
le voci narranti, due le personalità di ogni personaggio, due i
luoghi del passato e del presente. La voce di Romano, dissacrante e
tremendamente divertente, si somma a quella più mite e insicura di
Giulia, creando il look perfetto di una storia che affonda i ricordi
in misteri di cui noi italiani siamo veramente poco informati. Italo
Balbo, la sua morte, la guerra in Libia, il fuoco amico, i tesori
nascosti dei fascisti che, forse, neanche saranno più trovati.
Biondi riesce, in maniera semplice, quasi come bere un bicchiere
d'acqua, a creare una storia avvincente, dalle tinte noir, con tanto
di smilzo e ciccione, capo figo e sorridente dai vestiti dal taglio
elegante e sofisticato, e vecchio misterioso a capo dei servizi
segreti italiani. Una sorta di “Piazza delle Cinque Lune” in
chiave romagnola, descritta però con un'ironia e una simpatia che
hanno dell'incredibile. Sovente ci si trova a ridere di gusto davanti
ai dialoghi interiori di Romano, così perfettamente naturali e
giusti. E il dualismo espresso dal Biondi risiede anche in questo. Si
evince, in effetti, quanto la voce interna della coscienza rispecchi
in pieno il carattere reale di una persona e quanto, invece, sia
differente dall'aspetto mendace di cui ci si vuole vestire in
società. I pensieri di Giulia anche hanno lo stesso scopo, ma
risultano meno incisivi, forse soltanto perché la personalità
dell'uomo è semplicemente più interessante e accattivante. La
storiografia del romanzo è ben delineata e si comprende lo studio
dettagliato che l'autore ha condotto per donare al lettore un lavoro
il più possibile corretto e pulito, riuscendoci per altro in maniera
esemplare. Non c'è che dire, la lettura di Due è stata altamente
piacevole, scorrevole ed estremamente divertente. Tutti noi vorremmo
avere un Romano pronto a farci fare due risate, esternando quei
pensieri che abbiamo, in effetti, all'interno delle nostre coscienze
ma che difficilmente riusciamo a palesare con comportamenti e parole.
Oltretutto con la capacità di sdrammatizzare situazioni difficili,
al limite della sopportazione psicofisica. Ma quel Romano, in fondo,
potrebbe essere chiunque, se solo ogni persona riuscisse a non
commiserarsi, piangendosi addosso per ogni minimo ostacolo, trovando
il lato ironico e, mediante questo, riuscire a godere di ogni istante
della vita come se fosse l'ultimo. Arrendersi mai, provare sempre una
via di fuga, un modo di risolvere i problemi prendendoli di petto e
non aggirandoli o scappando. Perché scappare non è mai una
soluzione e il Biondi, in questo, è chiaro. L'ironia e la simpatia,
con un sorriso a far da sfondo, possono più di un cazzotto ben
assestato. Poi certo, la fortuna è sempre ben accetta! Davvero
un'ottima prova d'esordio, questo Due, al quale, potete starne certi,
seguiranno altri mirabili lavori. Per il momento credo proprio che
leggerò il secondo romanzo di Biondi, uscito nel 2013, rimanendo in
attesa di quello di quest'anno. Perché un autore così non credo
abbia la possibilità di fermarsi qui, avendo il compito sacrosanto
di continuare a scrivere per i lettori che lo hanno letto, apprezzato
e che desiderano seguirlo.
venerdì 11 aprile 2014
Morsi di morte di Anton Francesco Milicia
Padre Matteo è un pretucolo di
campagna, assegnato al gregge sparuto e incanutito di un piccolo
paese della campagna calabrese. Beh, non è proprio una chiesa
canonica immersa nel clima gioviale della gioventù in boccio, quella
in cui serve messa, ma i patti con i superiori sono stati chiari e
concisi. Pur di salvarsi la pelle, infatti, Padre Matteo è scappato
dalla grande città e da un'accusa infamante e dannatamente seria.
Abuso sessuale, gente. E che abuso. E mica solo di un minore... No,
di ben diciassette ragazzini. Solo uno di loro ha sempre insistito a
dichiarare la sua innocenza, pur remando contro la moltitudine di
coetanei che invece proclamavano l'abominio ricevuto. Ma tant'è...
Padre Matteo, resistendo strenuamente contro l'impulso malato della
sua mente, continua a sopravvivere in quella piccola chiesa di
campagna. Però qualcuno sa, qualcuno ha capito... E non solo in
città.
Inizia così il breve racconto di
Antonio Francesco Milicia, autore esordiente ma dalla penna
straordinariamente colma di talento. Si, ragazzi, talento. Perché
non è semplice tessere la trama fitta di una storia intricata come
quella che ha descritto, nel suo “Morsi di morte”. Come in una
ragnatela, come lui stesso definisce il mondo in cui si muove uno dei
personaggi chiave della narrazione, Milicia produce, a ogni piccolo
passo, un filo di seta capace di intessersi perfettamente, creando
ricami senza difetti alcuni, non lasciando assolutamente nessun
dettaglio al caso. Il lettore è portato a leggere febbrilmente
pagina dopo pagina, non subendo per nulla la brevità del racconto.
Come se fosse riuscito a costituire, grazie alla penna, un piccolo
mondo, Milicia riesce ad accattivare, esaltare e incuriosire,
trasmettendo ansie e angosce proprie delle vittime descritte. La
denuncia della pedofilia clericale, argomento purtroppo in auge nei
tempi moderni, riesce a essere incisiva per quanto l'autore non si
soffermi affatto sui particolari scabrosi che, sovente invece,
tendono a tempestare le pagine dei quotidiani nazionali interessando
per la loro morbosità più che per l'evento in sé. È possibile
riscontrare, inoltre, la testimonianza di come lo sconforto e il
danno mentale e psicofisico di tale reato siano in grado di
insinuarsi nell'abusato, creando un mondo parallelo di realtà
distorte, capaci di giustificare in qualche modo gli impulsi
primordiali di una voglia di rivincita sull'aguzzino, agognando a una
sua fine in maniere insospettate e insospettabili. È sconvolgente
come, in effetti, Milicia riesca in sole ventiquattro pagine a
rendere il senso di ansia, di ingiustizia, di pazzia latente e
conseguente a un abuso infantile. È sconvolgente come un autore
esordiente riesca laddove molti suoi colleghi di più elevato
spessore e con mezzi altamente superiori a disposizione hanno fallito
in passato. Un thriller, dai risvolti fantastici con brevissimi
accenni all'universo horror, solo accarezzato, quest'ultimo,
nonostante, forse in un contesto più ampio, sarebbe entrato di
rigore e diritto nella narrazione sposandosi perfettamente al
contesto socio culturale descritto. Magistrali le frequenti metafore
utilizzate che riescono a rendere perfettamente determinate scene
altrimenti scomode e crude nel contempo. Insomma, al suo primo lavoro
Milicia dimostra di avere tutte le carte in regola per sfornare un
lavoro di più ampio respiro, come un romanzo, non deludendo,
comunque, sul genere breve del racconto. In attesa di prossimi
sviluppi futuri, che so per certo sono in arrivo a breve, non posso
far altro che consigliare la lettura del suo “Morsi di morte”,
complimentandomi con lui e con il fato che ogni tanto col suo zampino
riesce a mettermi sulla stessa strada di validi autori.
martedì 8 aprile 2014
I Marmi di Carlo Campani e Paolo Cecchini
Possibile che le persone non debbano
esser lasciate in pace neanche dopo la loro morte? Possibile che,
anche nella sacralità dei marmi immobili del cimitero di Trespiano,
la perversione debba toccare punti di inaudita violenza? La povera
ragazzina Vittoria Gori è stata quasi trafugata e, certamente,
toccata in maniere poco usuali a ciò che un cadavere richiederebbe,
mentre un ragazzo, pronto a una delle classiche prove di coraggio
indette dalla sua combriccola, è stato quasi ammazzato proprio in
mezzo al cimitero, lasciato agonizzante alle porte della cappella
della giovane. Cosa diavolo sta succedendo a Firenze? Perché, ora,
sembra vi siano trafficanti di salme e necrofili pronti a saziare le
proprie infide voglie su corpi inermi come quello dell'innocente,
quanto rinomata, ragazzina? Settembrini, il vicecommissario della
Regia Questura, se lo chiede interdetto, aggrottando la fronte, nel
suo incedere quasi claudicante tra i marmi, nella sua andatura resa
lenta e instabile da una vecchia ferita di guerra. Di certo non si
metterà a correre per inseguire i colpevoli, per quello sarà
sufficiente la mente abile e scaltra di cui è dotato. D'altronde al
suo servizio ha il Masi e lo Scodellini che in quanto a forza fisica
e d'animo non hanno nulla da recriminare a nessuno. Certo, non si
potrebbe dire la stessa cosa dello Zipolo, ma nessuno può sapere,
fino in fondo, di cosa sia capace il nuovo arrivato napoletano.
Napoletano in terra fiorentina, una cosa quasi da ridere. Ma torniamo
a noi, al reato, al tentato omicidio. Perché a questo, tra poco, si
aggiungerà anche il ritrovamento inquietante del cosiddetto
“Mezzasalma”. Quello si che è un bell'inghippo, per il
Settembrini. Ma poi c'è la strana scomparsa del Tocci, la sua
malsana collaborazione con lo Sterra, il becchino del cimitero, e poi
il Giacomoni e... Mio Dio, tutti questi personaggi in un romanzo solo
senza creare confusione alcuna? Oh si. Oh si, Campani e Cecchini lo
hanno fatto e ne hanno aggiunti anche degli altri, magistralmente,
senza assolutamente divagare in nessun particolare. Beh, a dire il
vero un pochino si, ma solo apparentemente. Ma torniamo nei ranghi,
in modo tale da riuscire a spiegare qualcosa de “I Marmi”.
Spiegare... No, non potrei. Per il semplice motivo che rischierei, a
ogni dettaglio, di rivelare parti interessanti e salienti di un
romanzo che sembra costruito a tavolino pezzo per pezzo. Narrata con
una maestria quasi inaudita, la storia de I Marmi incastra, come in
un complesso puzzle, pagina dopo pagina, tasselli indispensabili alla
risoluzione di un caso ancor più grande di quello che si intuisce
fin dalle prime pagine. Ambientato nei primi anni venti del secolo
scorso, subito dopo la marcia su Roma, nel pieno fulgore di un
fascismo pronto a inerpicarsi, come un'edera, per i muri di un'Italia
ancora sofferente per la guerra passata, I Marmi testimoniano la
realtà di una Firenze normale, una Firenze scaltra, per alcuni versi
cattiva e insensibile, ma densa di una dignità perduta nel tempo.
Come fece il Gadda anni prima, riprendendo una struttura linguistica
e stilistica simile, Campani e Cecchini propongono il classico noir,
condito dai vari dialetti che fecero dell'Italia, molto più in
passato che in epoca moderna, quel Bel paese che ancora il mondo, in
qualche modo, ci invidia. Meta di stranieri attratti dalle bellezze
del paese, nonché dalla buona cucina e dalla giovialità, forse in
alcuni casi solo apparente, delle piccole frazioni cittadine,
l'Italia emerge ne I Marmi forse più che di Firenze stessa,
ambientazione scenografica dei fatti narrati. Descrivendo in maniera
acuta, intelligente e puntuale l'avvento del fascio, di un Mussolini
non edulcorato e della Milizia, esercito innovativo atto a
soverchiare la sovranità delle autorità fino a quel momento
centrali e importanti, Campani e Cecchini immergono il lettore in un
mondo quasi in bianco e nero, sfocato, come nei film anni '40. dal
fumo di sigarette altolocate e serie, intellettuali, quasi
legittimate nella loro erudizione. Nel romanzo vi sono tutti i canoni
classici del noir, dalla bella vedova dall'aria misteriosa al vice
commissario integerrimo e incorruttibile, dal sottoposto un po'
fessacchiotto ai poveracci della cittadina, colpevoli di un'ignoranza
atavica. Vi sono i morti e il mistero che vi si cela dentro, i colpi
di scena a non finire e l'assassino strano, deviato, ben differente
da quelli descritti nei gialli d'autore. Forse proprio il luogo
deciso dagli autori per inscenare il loro romanzo rende I Marmi così
originale nonostante il genere quasi scontato. Non è semplice
scrivere noir, proprio per la semplicità con cui si rischia di
cadere nella banalità. Come in un racconto narrato da Lucarelli, ad
esempio nella sua dissertazione circa i delitti del Pacciani, la
storia di Alceo Cori si mescola a quella del Settembrini percorrendo
vie parallele ma congiunte tra loro da linee sottili. Due personaggi
agli antipodi, collegati tra loro soltanto dal luogo d'origine,
dall'ironia feroce di cui si fa vanto, specialmente in taluni casi,
la città di Dante e da un dialetto che riesce a sembrar simpatico
nonostante la brutalità degli atti narrati. Non si riesce a non
sorridere nel leggere i dialoghi tra i becchini del cimitero di
Trespiano. Non si riesce a non essere indignati davanti al Fracassi,
alla sua ampollosità nell'essere così dannatamente fascista e
miliziano, non si riesce a non provare deferenza e rispetto al
cospetto dell'integerrimo Settembrini. La polizia acquisisce di nuovo
quella dignità che, nel tempo, ha perduto, testimoniando come,
assieme ai Carabinieri, l'epoca del secolo scorso fosse
pericolosamente migliore di quella moderna. Nonostante l'avvento
della seconda guerra mondiale, nonostante il potere e i suoi giochi
cattivi e privi di empatia alcuna, leggendo I Marmi si prova
l'indiscussa tentazione di voler scardinare il presente, resettare
l'egemonia della globalizzazione e far tornare le vecchie abitudini,
nonché gli antichi modi pensare e vivere, in auge. I vecchi dicono
ancora oggi “Si stava meglio quando si stava peggio” e leggendo
il Cecchini e il Campani si pensa proprio sia vero. Aldilà del noir,
della bravura e del talento indiscutibile degli autori nel narrare,
nel citare versetti in latino, facendo trasparire una cultura che
raramente, nei tempi moderni, è facilmente ravvisabile negli autori
contemporanei, ciò che davvero cattura del romanzo è la dignità
del popolo italiano che si respira. Che fine ha fatto la gente che
popolava il nostro paese? Le convinzioni, le tradizioni... Tutto
perduto in una nostalgica storia post e prebellica. Ci sarebbero
innumerevoli altre cose da dire, altri dettagli da svelare, altre
angolazioni da sondare attentamente, ma non sarebbe possibile. Perché
I Marmi è, come si suol dire, TANTA ROBBA, e conversarne in questa
sede risulterebbe alquanto riduttivo. Ci sarebbe da analizzare il
dramma nella figura del Cori, la scaltrezza nella bellezza
consapevole della Giunti, la dignità e l'animosità del Settembrini,
la simpatia insita nello Zipolo che, come per i personaggi fiorentini
ed empolesi, possiede un dialetto, quello napoletano che lo rende, di
diritto, privo di scontrosa antipatia. Descrivere dettagliatamente un
romanzo simile sarebbe impresa altresì ardua anche per il linguaggio
estremamente colto e raffinato che scade talvolta, e in maniera quasi
perfetta nella sua puntualità, anche in frasari più dialettali, con
una prosa ruvida e perfettamente rispondente alla situazione.
Insomma, leggere I Marmi mi ha entusiasmato, restituendomi il gusto
della lettura non per mero piacere dell'atto, ma per conoscere e bere
avidamente da una fonte sempre nuova di acqua fresca e pura. Ho
riscoperto la gioia di centellinare le pagine, pregustando il colpo
di scena, gioendo per le vittorie e sorridendo inconsapevolmente
delle digressioni saltuarie. Non posso che consigliare la lettura di
questo romanzo, augurandomi e augurandovi, chissà, di partecipare a
qualche presentazione dello stesso, un giorno.
lunedì 7 aprile 2014
Il tempo stringe...
L'incanto si saperti reale
Il pensiero di avere
un movimento costante
nella mia veglia
nel mio torpore
Il sentore di poter ascoltare
con un senso interno solo mio
la tua presenza
un tuo singulto
La tua vita avulsa
dalla mia
eppure così dipendente
dal mio battito
E sapere che mi ascolti
in ogni momento
e che cullo il tuo sonno
durante il vespro
Un miracolo che non
so o posso spiegare
per il quale non esiste
parola alcuna ideata
Eppure sono un turbinio
di emozioni contrastanti
meraviglia e stupore
naturalezza e assuefazione
Saprò rinunciare a
sentirti dentro
a vederti e toccarti
invece, solo, d'immaginarti?
venerdì 4 aprile 2014
Domani è un altro giorno di Caterina Ferraresi
Carolina è una donna dalla vita
normale, la cui esistenza è scandita da giornate normali, sesso
coniugale normale, lavoro normale e famiglia al limite del normale.
Si, perché sua madre non è proprio la consueta mamma chioccia della
famiglia del Mulino Bianco che ognuno vorrebbe e sua zia Carolina,
vecchietta ultranovantenne per nulla contenta della loro omonimia,
nonostante le dimostri un affetto incondizionato, continua a
storpiare il suo nome, collezionando, nel contempo, mariti su mariti,
provando come la sua sia un'esistenza molto più piena e appagante
della sua. Ma si sta' divagando. Beh, in fondo lo psicologo stesso di
Carolina invita al collegamento di idee, saltando di palo in frasca,
cercando di spiegare qualcosa di sé stessi, mediante associazioni a
volte astruse per altri. Insomma, Carolina non è affatto preparata
allo stravolgimento che il destino ha in serbo per lei, la sera del
14 dicembre, mentre serve la minestra di piselli al marito. Minestra
che, da quel giorno, rimarrà per sempre l'artefice di un dolore
sordo, l'oggetto su cui riversare ogni tipo di frustrazione derivante
dallo scompiglio pre natalizio. “Tu, per me, hai un'altra”
esclama, infatti, Carolina a suo marito, un po' per noia, un po' per
gioco. “Si” ammette lui, mettendosi poi a piangere. E da qui
Caterina Ferraresi svelerà cosa può accadere nella testa di una
donna tradita, in fondo più da sé stessa che dal marito, in un
crescendo di ironia, disarmante probabilità condita da scenari che
appaiono quasi surreali, ma che non lo sono. E non lo sono perché la
storia di Carolina è un po' la storia di ognuno di noi. La
Ferraresi, mediante un linguaggio e un ritmo incalzanti, mai banali o
tediosi, svela ogni sfaccettatura della solitudine dopo un abbandono
inaspettato, la rabbia dopo il tradimento, la presa di coscienza di
sé stessi, dimenticati nei meandri di una quotidianità che,
sovente, prende il sopravvento su qualsiasi desiderio. I personaggi
si svelano, si susseguono, rivelando, ognuno, una psicologia propria
a qualsiasi lettore, come se ogni carattere sia una sfumatura di una
personalità unica. La ritrosia di Sig, lo psicologo, che tende ad
ascoltare i problemi altrui senza mai rivelare nulla di sé stesso,
quasi schernendosi dietro alla propria professione. La debolezza di
Carlo, ragazzo troppo cresciuto, costretto a diventare quasi una
sorta di stalker pur di approcciare Carolina, meta del suo interesse.
La superiorità di Cinzia, amante altera, in grado di modificare in
tutto e per tutto il carattere mite del compagno, dimostrando quanto
una donna riesca ad acquisire potere, nonostante non ne senta per
nulla dentro di sé. Dimostrando, quindi, quanto la “superficie”
riesca a creare mondi differenti da quelli che, per natura, sarebbero
assegnati a determinate personalità se prive della classica
“occasione” di apparire differenti da ciò che sono. E la scaltra
e arzilla vecchietta zia Carolina, vera scheggia impazzita del
romanzo, adorabile nella sua gioia di vivere, sagace nelle sue
analisi dettagliate e spietate. Non si smette mai di credere nel
futuro, non dovrebbe mai accadere il contrario, e sarà mediante la
contagiosa ilarità della zia che Carolina si renderà conto che la
vita non smette mai di creare suspence, anche quando tutto sembra
irrimediabilmente stabilito, scritto, tristemente programmato. Ciò
che sovente l'essere umano dimentica è che il potere di mutare la
propria esistenza non è detenuto dal destino, ma da lui stesso. Il
coraggio è l'unico ostacolo al perseguimento di tale scopo. E la
Ferraresi, dimostrando un talento assoluto nel narrare brillantemente
situazioni che risulterebbero banali se scritte nella maniera
canonica, svela quanto sia importante credere nell'avvenire, venir
trascinati lungo i viali dell'ignoto, mostrando quanto non sia vero
il detto” chi lascia la strada vecchia per quella nuova sa quello
lascia, non sa quello che trova”. Perché molto spesso ciò che si
può trovare, intraprendendo un percorso nuovo, è un'avventura
milioni di volte più esaltante di quella che ci si aspettava di
vivere nelle condizioni di vita pregresse. Scoperta per caso, dietro
segnalazione, la Ferraresi mi ha colpita per l'ironia e la freschezza
che è in grado di utilizzare durante la narrazione. Non è
divertente, ma ironica, e c'è una bella differenza. Non fa ridere,
come un attore comico, bensì sorridere come un accorto studioso
della mente umana, come uno psicologo attento e acuto. Aldilà del
romanzo, quindi, ciò che stupisce è il fatto che, nonostante
l'autrice sia stata segnalata e selezionata da un marchio prestigioso come “Io scrittore”, facente parte del gruppo Mauri Spagnol, non sia stata pubblicizzata a dovere, relegando il suo talento a
pochi fortunati meritevoli di essere incappati in questo talento non
divulgato. Quanto ci vorrà, ancora, prima che tali autori arrivino,
finalmente, alla tanto agognata luce che meritano? In un'Italia in
cui anche il bimbo di 5 anni, ormai, può pubblicare il proprio
lavoro, sarebbe cosa buona e giusta se chi è del mestiere iniziasse
a creare dei distinguo. E la Ferraresi dovrebbe essere inserita di
diritto nel gruppo degli autori meritevoli di attenzione. Decisamente
consigliato a chiunque, specialmente alle donne che si apprestano a
superare i quarant'anni, “Domani è un altro giorno” vi farà
sorridere, ma anche e soprattutto riflettere. E di certo verrà
ricordato, nel tempo, per quello scritto che donò la fiducia
necessaria a credere nelle proprie possibilità, nonostante non si
posseggano tutte le infinite e magiche qualità che si notano sempre
negli altri e mai in sé stessi.
giovedì 3 aprile 2014
I colori che ho dentro di Nadia Boccacci
Gemma è una donna. Fragile,
introversa, ferita e, per certi versi, anche umiliata da una vita che
non le ha concesso sconti. Mai, neanche una volta. Il destino,
infatti, l'ha voluta abbandonata a pochi anni dalla nascita
dall'unica figura in grado, e con il dovere, di impartire i primi
passi nella vita. Un abbandono ingiusto, portatore di infinite
patologie psicologiche che determineranno gran parte della
personalità fragile della donna nel corso della sua esistenza.
Perché un solo genitore non può bastare nell'asservire a un compito
arduo come quello di condurre una nuova vita verso la luce la fiducia
e la consapevolezza di sé tra gli altri. Un padre non può, da solo,
sostituire entrambe le figure di cui un bimbo avrebbe bisogno per
crescere nella maniera più sana possibile, non se l'abbandono è
stato caratterizzato da un'egoistica voglia di fuga piuttosto che
un'improvvisa morte, per molti versi decisamente più digeribile a un
cuore in tumulto. Gemma è fragile, e come una tela di un quadro,
lascia che i colori ne determinino gli stati d'animo, cercando di
gettare luce su comportamenti ed emozioni che sola, forse, non
sarebbe in grado di spiegare o analizzare. Ogni situazione, quindi, e
ogni forte emozione assumono la tonalità che meglio si avvicina, per
assonanza, a ciò che più scuote l'animo della donna,
determinandone, come un caleidoscopio, le sfumature tramite le quali
è possibile interpretarne la giusta scala di valutazione per poterle
rimanere accanto. Ma non è semplice e soltanto un animo affine,
profondamente empatico, può riuscire nell'impresa di rendere felice
Gemma, preda, suo malgrado, di un'insicurezza latente che la rende
simile a una bandiera scossa dal vento impetuoso del fato. Un fato,
come nell'antichità, inteso come destino. E sarà attraverso i
giorni e i colori di cui questi si tingeranno che Gemma percorrerà
le fasi della sua vita, in maniera intimistica e psicologica,
tentando differenti vie per vivere in maniera migliore, piena e,
perché no? Appagante. Non è corretto lasciare al destino il potere
di determinare la propria esistenza, specialmente se ogni singolo
tassello della vita sembra voler dar vita a un imprevisto dopo
l'altro atto alla sottomissione della felicità in favore di un
dolore pressante e impossibile da contrastare. La Boccacci, con il
suo “I colori che ho dentro” guida, attraverso due diversi modi
di narrare, il lettore in un viaggio profondamente intimistico con il
chiaro intento di trasmettere un messaggio di speranza, ben lontano
dal profondo stress emotivo al quale tutti siamo a rischio di
affacciarci. La vita moderna è frenetica, ricca di incongruenze, di
pensieri nefasti e situazioni prive di felicità. Risulta, quindi,
fin troppo semplice il desiderio di controllo, la necessità di
programmare un futuro che sembra quasi prestabilito, per tentare di
non soccombere, per cercare di rimanere a galla. Perché se si lascia
al nero la capacità di avvolgere la propria anima, la depressione è
possibile e, in maniera inquietante, unica colpevole di una fine
debole e prova di lotta. La Boccacci, forse attingendo a situazioni
ed esperienze personali, data la nota fortemente intimistica della
narrazione, lancia un messaggio di speranza per tutti coloro che
hanno bisogno di credere nella riuscita della propria personalità, e
lo fa in maniera semplice, adottando un linguaggio estremamente
chiaro e diretto, lineare e scorrevole, privo di dialoghi ridondanti
o astrusi. “I colori che ho dentro” è un romanzo che si lascia
scoprire, pagina dopo pagina, rivelando storie di amori intensi,
probabili, fin troppo reali e, in alcuni casi, dannatamente
sbagliati. Sbagliati ma che aiutano, se non riescono a essere letali,
a comprendere cosa davvero è importante, quale dovrebbe essere il
cammino verso la felice realizzazione dei propri sogni. Non
rinunciando al proprio io, senza scendere a compromessi con un modo
differente di essere. Soprattutto, senza cedere alla necessità,
quasi impossibile da ignorare, di programmare anche l'amore, anche
l'ansia, anche ciò che dovrebbe risultare estremamente semplice per
ognuno di noi: vivere.
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