Il mio terrore inespresso
La realtà che vivo non è
comprensibile. Me ne rendo conto, giorno dopo giorno. Non parlo, ma
non lo faccio per impossibilità, non perché non ne sono capace. La
gente non capisce, o forse finge. Per noia? Pigrizia? Non so. Perché
se qualcuno, oltre i miei genitori, si prendesse la briga di
osservarmi, potrebbe rendersi conto di chi effettivamente io sia. E
di cosa, effettivamente, io abbia bisogno. Ma, nonostante tutto, non
posso e devo lamentarmi. Molti parlano di Dio, come se fosse un loro
intimo confessore. Per me è un fedele amico. Ma non parlo del Dio
che tutti conoscono o venerano. Il mio, di Dio, è differente. È
l'unica entità in grado di comprendere e capire cosa un mio gesto o
un mio sguardo voglia effettivamente esprimere. Io ho paura. Dio lo
sa, lo comprende. Lui è con me, ogni istante, ogni giorno. Amo i
miei genitori e credo che loro, a distanza di anni, lo abbiano
percepito. Posseggo un mio modo per esprimere concetti, ma non per
questo non provo emozioni. Contrariamente a tutto quello che nella
società viene intrapreso come lotta per i miei diritti, a me non
interessa che gente che non conosco si prenda la briga di salutarmi.
Non sono poi tanto differente da qualsiasi altra persona. Ciò che mi
rende diverso è la semplice impossibilità di avere comportamenti
che rispondano ai canoni prestabiliti dall'essere normale. La mia
mente funziona, e anche meglio di quella di molti. Gli impulsi ci
sono, così la volontà. Il problema si pone nel momento in cui il
cervello comanda al corpo una determinata azione. Non so per quale
motivo, eppure i miei arti non rispondono come vorrei. I crampi alle
braccia, rigide, sono atroci, ma non faccio nulla per farlo
comprendere. Perché sono coraggioso? Può darsi io lo sia, ma non è
questo il motivo del mio silenzio. Può darsi che io abbia una soglia
del dolore più alta rispetto ai miei coetanei? No, altrimenti le
lacrime che luccicano sulle mie guance non sgorgherebbero come
torrenti da un monte. No. La verità è che la mia bocca produce
suoni che gli altri, persino chi mi vuole bene, non riescono a
interpretare. Le parole, io, le conosco. Comprendo le lezioni che
vengono spiegate in classe, sono stato attento, nonostante il mio
atteggiamento dimostrasse il contrario. La maestra puliva la mia
bocca, schernendosi il viso per paura di uno scatto improvviso dei
nervi. Lei spiegava, stoicamente, continuando a guardarmi in volto.
Continuando, imperterrita a trattarmi come un bambino normale.
TRATTANDOMI, soprattutto, ma sono stato fortunato. Perché lei c'è
stata laddove molti altri hanno rinunciato. Conosco ragazzi che non
hanno avuto la stessa mia fortuna. Conosco ragazzi che sono rimasti
ai margini di una classe, il volto rivolto verso il muro, intenti a
dondolare il capo in avanti e indietro nell'unico movimento che il
corpo consentiva loro. Nessuno ha saputo capire. Nessuno ha avuto
voglia di comprendere. Io sono fortunato, per alcuni versi,
nonostante chiedo di frequente al mio amico Dio come mai non possa
correre, giocare o parlare come i miei coetanei. Come fanno i miei
genitori. Il sogno di ogni figlio è quello di imitare, idolatrando,
il proprio padre o la propria madre. Io non posso. Non perché non
voglia, ma perché non riesco. Non riesco a immaginare un futuro in
un ufficio, in una carrozzeria, su un autobus affollato. Non riesco a
immaginare un'esistenza senza scatti di nervi improvvisi, capaci di
ferire senza la minima intenzione primordiale. Non riesco a
immaginare o vedere un futuro, per me, che comprenda l'amore di una
donna, l'amore di un figlio mio, la carezza di una persona gentile.
Seriamente e perdutamente innamorata di me. I miei genitori mi amano,
io lo so. Lo percepisco. Li ascolto, nonostante appaia sempre chiuso
in me stesso. Nonostante il mio sguardo sembri assente, le mie
orecchie in apparenza incapaci di ascoltare. Io so. Io comprendo. Il
mio cervello funziona anche troppo bene. L'ho detto, il mio cervello
funziona anche meglio di alcuni altri. Ma il mio corpo non risponde
ai comandi. E il mio vero problema è intimo, è personale. Nessuno
può sopire l'istinto primordiale che ho di proteggere me stesso.
Perché nessuno capisce il terrore. La paura arcana del dolore, del
contatto, dell'ignoto. Tutto ciò che non riguarda la mia mente è
estraneo. Il diverso mi fa paura. E tutto ciò che è diverso è
tutto ciò che non sono io. La gente non capisce, oppure finge nel
suo ignorarmi. Eppure basterebbe osservare. Il mio sguardo basso, il
voler arbitrariamente assentarmi, chiudermi in me stesso. Autistico.
Automatismo. Il ripetersi di gesti conseguenti. Non sono poi così
tanto differente da chi è preda di una depressione latente, da chi
soffre, improvvisamente, dei cosiddetti attacchi di panico. Oh si, io
li conosco. Io capisco, gente, capisco. Non parlo, non affronto un
dialogo, ma io vi capisco. Perché vivo in mezzo a voi, perché mi
prendo la briga di interpretare i vostri gesti, pur di migliorare la
percezione che il mio cervello ha di voi. Ma voi non comprendete me.
Non volete farlo. Troppo presi dalla frenesia dei giorni che si
susseguono, troppo presi dal terrore di accostarvi a chi è
differente da voi. Troppo presi da voi stessi, tanto da non riuscire
a concepire qualcosa differente dall'estensione del vostro ego. E
allora, tra me e voi, chi è il vero autistico? Cosa ci differisce,
in fondo? Io sono diverso perché non parlo, perché non ascolto,
perché ho paura che mi tocchiate. Voi non avete paura di me e, di
conseguenza, non mi parlate, non mi ascoltate, non mi toccate? Cosa,
in fondo, vi differisce da me? Siamo esseri umani, con un cervello,
con degli arti, con occhi e orecchie. Mangiamo, dormiamo. Tutto nello
stesso modo. Solo la maniera di esternare la nostra personalità
muta, ma non significa che io debba essere ignorato per questo. In
fondo, comunque, non mi interessa molto. Io amo i miei genitori, amo
chi mi vuole bene. Nella stessa maniera in cui voi tenete ai vostri
familiari o amici. La differenza è che voi avete molti più
sostenitori di me, ma... Beh, pazienza. È per questo che alla fine
mi tengo il mio amico Dio. Gioco con Lui, quando voi pensate che si
volti altrove, insensibile alle vostre richieste. Ci sono anche io,
pensateci. Quando mi vedete dondolare il capo, tenere le mani rigide
sui gomiti piegati, pronunciare fonemi che vorrebbero essere parole.
Quando voi pensate che non vi stia guardando, io vi sto studiando.
Quando credete che io non vi ascolti, io sto memorizzando ogni vostro
discorso. Sono una persona. Ho le mie emozioni, i miei timori, i miei
amori. Ho solo paura. Più terrore di voi verso l'ignoto. Quando mi
incontrate per strada, quindi, non fate finta di nulla. Oppure non
ostentate un sentimento di esagerata empatia. Agireste in maniera
sbagliata comunque. Non ho bisogno di compatimento. Ho bisogno
soltanto che voi cerchiate di capirmi. Come fareste con chiunque
altro desideroso di far parte della vostra vita. Sono una persona,
prima di essere una patologia. E come ogni individuo, vivo e respiro.
E piango. E gioisco. Frutto di un amore, sono pronto a donarne, anche
se impossibilitato a farlo nella maniera che voi concepite come
giusta perché racchiuso in un corpo forse inadatto a cogliere ciò
che il mio cervello gli impartisce. Forse. Non lo so neanche io. So
soltanto che ho paura e che avrei bisogno di un abbraccio sincero,
anche se molte volte respingo chi tenta di avvicinarmisi. Ho paura,
solo paura. Niente altro che paura.
Secondo me hai scritto al meglio quello che i bambini autistici sentono.
RispondiEliminaUn bacio
Giulia <3<3<3<3<3<3:-):-);-)
Giulia