martedì 29 aprile 2014

Storie di Antarica di Il Daz



Storie di Antarica


Antarica è un regno lontano, un regno incantato. Il regno delle fiabe con le quali tutti noi siamo cresciuti e il regno che vorremmo i nostri figli leggessero e conoscessero. Perché? Perché mediante Antarica è possibile conoscere la psiche umana, la stessa che ci è stato insegnato a indagare per conoscere la morale e il giusto comportamento per vivere nel mondo reale. Come nelle favole, spesso cattive e saggiamente spietate, dei fratelli Ghrimm, Antarica e le sue leggende emozionano, avvincono, fanno spalancare la bocca, oltre ad aprire la mente, fornendo la maniera adatta a comprendere il bene e male in ogni sua sfaccettatura. Cinque fiabe, quelle scritte dal Daz, pseudonimo di un autore a molti ancora sconosciuto, autoconclusive ma intrecciate l'un l'altra da piccoli particolari evocanti la precedente. Una trama ben studiata, e splendidamente intessuta, rende le leggende di Antarica favole capaci di evocare un mondo intero, proprio di un regno lontano che quasi si vorrebbe aver la possibilità di conoscere. La regina Isadora, talmente bella da rimanere accecata dalla propria vanità, apre la strada alla conoscenza, introducendo il piccolo o grande lettore in un regno incantato ben lungi dall'essere il fatato bosco delle fate. Densa di magia e mistero, Antarica narra le vicende di un soldato affetto da una grave codardia, desideroso solo di poter essere più coraggioso e narra di un re, Re Quinto, destinato a indicare la strada dei desideri a chiunque entri in possesso delle sue facoltà elettive, tramutate in una bellissima e stranissima bussola incantata. Ma vi è anche il cantastorie vestito di fieno e il pesce dei desideri, a far da cornice alle leggende del regno creato dal Daz. Storie di Antarica, riprendendo lo stile antico di fiaba, con lo stesso intento di voler insegnare una morale forse troppo spesso perduta, in epoca moderna, soppiantata dai beni di lusso quali televisione e videogiochi, propone al genitore lo strumento adatto a indicare al proprio figlio la giusta via da percorrere. La stessa via, d'altronde, che al genitore stesso fu mostrata dal suo predecessore, andando a ritroso fino alla notte dei tempi. Se è vero che la globalizzazione rende il mondo tecnologico privo di valori forti, è pur vero che i bambini necessitano di essere istruiti sempre e comunque nelle stesse maniere che hanno reso la società odierna mondo sul quale camminano persone ancora desiderose del bene per il prossimo. Senza un'adeguata istruzione ed educazione, difficilmente le nuove generazioni saranno in grado di discernere il giusto dallo sbagliato. Da che mondo è mondo, le favole hanno sempre assolto al proprio dovere di primo insegnante mediante la morale insita in ogni propria storia ed è bellissimo che nell'epoca moderna un ragazzo tenti di riproporre lo stesso insegnamento mediante un linguaggio in grado di giungere al cuore del piccolo lettore con semplicità ma rigore. Ho immaginato di leggere Storie di Antarica a mio figlio, un giorno, prima di vedergli chiudere gli occhi dopo una giornata di faticosi ed estenuanti giochi, e mi è spuntato un sorriso. Perché credo che lo farò. E sono tornata bambina, ripensando alla storia di Giacomino e il fagiolo magico, ripensando alla Bella Addormentata, quasi invidiando il Daz per la bravura che ha dimostrato a inventare un intreccio così ben fatto di fiabe dense di significato. Non è semplice parlare ai bambini, ma l'autore lo fa con una semplicità che lascia sgomenti. A chiunque sia genitore, consiglio di acquistare Storie di Antarica, leggerne il contenuto e poi iniziare un percorso di intima lettura con il proprio figlio la sera prima di farlo dormire. Per insegnare con amore, condividendo, mediante la lettura, un momento che il bambino difficilmente dimenticherà durante la sua vita. Anzi, che forse getterà le basi per una tradizione perduta e che invece farebbe davvero bene a chiunque.

lunedì 28 aprile 2014

Finché suocera non ci separi (Cara, ti odio!) di Corinne Savarese


Finché suocera non ci separi!




Annabella è stata debellata. La sua egemonia distrutta, infranta, persa in mille pezzi dissolti nell'aria, come le ceneri del nemico. Finalmente Daphne e Andrea, sposi, si lasciano andare ai bagordi del viaggio di nozze, alle bellezze della vita di coppia, alla fantasticheria derivante dall'esaltazione del momento. È tutto un tripudio di ricchi premi e cotillons, al ritorno in casa: la loro casa. Andrea, galvanizzato dal ritorno, Daphne distrutta dal viaggio; i due si abbandonano sul letto, pronti per un riposo. Un unico particolare da sbrigare prima di lasciarsi andare al meritato ristoro dopo tanto gozzovigliare: controllare i messaggi in segreteria. Ed è lì che il gelo cala, paralizzando gli arti di Andrea, forse inconsapevolmente conscio del dramma che si sta per consumare entro le mura domestiche. Il sipario cade rovinosamente a terra, travolgendo gli attori coinvolti nella commedia “Daphne e Andrea, the revenge”. Perché Clarissa e Giustino stanno per arrivare. Clarissa e Giustino. Due nomi, una promessa. “Tesoro, amore della mamma, arriveremo per conoscere la tua sposa!” E sarà come l'agnello di Dio che toglie i peccati del mondo abbi pietà di noi. E saranno le piaghe d'Egitto senza il caldo torrido del sole africano. No, niente Africa. Clarissa viene dai Caraibi con furore, altroché città e governanti. Psicoterapeuta affermata, con tanto di lacché al seguito, Giustino suo marito, per l'appunto, Clarissa sarà la suocera che qualsiasi nuora vorrebbe infilzata stile bambolina voodoo da mille spilli più uno, tanta è la sua tracotanza nell'essere in ogni dove, in ogni momento. Un dio sceso in terra. Ma uno di quelli che ti fanno rimpiangere di essere ancora vivo e di non esserti estinto assieme ai dinosauri durante l'era glaciale.

Torna Corinne Savarese e tornano i personaggi di “Cara cognata ti odio!”, ancora più irriverenti, ancora più stressatamente spassosi. In questa nuova puntata della saga del momento, la Savarese si spinge oltre la semplice simpatia dimostrata nel primo libro della famiglia Borghi/Borgia. Strisciando sottile come una serpe nei meandri di un rapporto difficoltoso, quale quello tra suocera e nuora, l'autrice testimonia in maniera puntigliosa, puntuale, ficcante e terribilmente dissacrante quanto il proprio ego possa emergere ai danni del prossimo. Se in Cara cognata ti odio Annabella, sorella di Andrea, rappresentava l'ostacolo, l'elemento di disturbo, disturbata lei per prima da mille conflitti interni dovuti a un passato non propriamente sereno, in Finché suocera non ci separi Clarissa rappresenta l'incubo che nessuno vorrebbe vivere in terra. Rievocando quasi gli scenari apocalittici di Nightmare, la Savarese descrive in maniera assolutamente perfetta cosa siano capaci di fare il vizio, la tracotanza e la potenza di un ego smisurato abituato a ottenere tutto ciò si desideri mediante una scaltrezza quasi impossibile anche solo di immaginare. Apparentemente una commedia dell'assurdo, caratterizzata da personaggi astrusi e poco credibili, Finché suocera non ci separi narra, invece, proprio la realtà familiare di molti. Si è portati a pensare che alcune cose accadano soltanto nei film e nei libri, ma indagando in ogni famiglia è facile rendersi conto quanto, invece, molte volte le situazioni quotidiane riescano a superare di gran lunga il filo interminabile della fantasia. La violenza psicologica, quella vera, non appartiene soltanto ai rapporti uomo-donna, e non è una prerogativa di vite altrui, lontane dal proprio contesto sociale. La violenza domestica viene perpetrata in ogni dove, da qualsiasi persona e in ogni modo possibile. E per assurdo, la figura della suocera si presta in maniera disarmante a tale ruolo, perché forte di una posizione privilegiata rispetto alla nuora e al figlio. La suocera è grande, esperta, potente, colma di amore. Profondamente e attivamente mossa dalle sole parole “amore” e “aiuto”, infatti, tale figura può tranquillamente tessere e intrecciare rapporti, distruggerne di preesistenti, muovendo le fila di vite già collaudate e serene senza la sua presenza. Costantemente presente, la suocera può avvalersi del ricatto morale e affettivo nei confronti dei suoi sottoposti (in questo caso nuora e figlio) uscendo, da ogni situazione, quale vincitrice indiscussa da una battaglia che lei stessa ha creato e voluto, perpetrato e concluso, al solo fine di legittimare un ruolo in decadenza. Complici l'età, l'infrangersi di una maternità lontana, la dissolvenza di una giovinezza molto spesso sprecata per via di problemi causati probabilmente proprio da un predecessore simile a se stessa, la figura ingombrante della suocera è sfigurata, deformata, quasi fosse il riflesso di uno specchio nella casa degli orrori. Installandosi in una casa non sua, mediante scuse plausibili e prive di possibili recriminazioni altrui, la suocera entra e si insinua nel rapporto di coppia, corrodendolo dall'interno, gettando le basi per un disastro preannunciato. La Savarese, in questo frangente, pur mantenendo lo stile frizzate del primo libro, dimostra una maturità superiore nel suo riuscire a spiegare, con voce chiara e mai tentennante, le dinamiche proprie di una violenza che troppo spesso viene consumata all'interno di moltissime famiglie. Anche in questo caso, nonostante il lettore sia portato all'esasperazione, agognando una fine lenta e dolorosa nei confronti dell'aguzzino, l'autrice dimostra come la superiorità del perdono riesca a salvare una situazione disastrata e priva di apparente risoluzione. Il perdono è ciò che distingue la tracotanza dall'intelligenza. Il perdono è lo strumento che eleva l'essere umano vicino al divino, allontanandolo di netto dall'oscurità del meschino. Il perdono è ciò che permette la vera introspezione del prossimo e, in primo luogo, di se stessi, riuscendo a sanare vuoti incolmabili. Molto spesso rappresenta forse un cedimento, ma la comprensione è di gran lunga ciò che differenzia l'animale dall'essere pensante che cammina sulla terra anziché strisciare. Non tutti posseggono le facoltà elettive capaci e necessarie alla convivenza tra caratteri diametralmente opposti e ben distinti. Ma, come avviene in una coppia, il compromesso per una sana e pacifica unione è rigoroso e decisivo e molto spesso deve giungere dall'elemento più lungimirante e saggio, non necessariamente più debole. Nella concezione moderna di uomo, si è portati a pensare che l'elemento più forte sia in grado di vincere ogni battaglia e che qualsiasi forma di furbizia sia la chiave intrinseca alla vittoria. Ma cos'è, in fondo la vittoria? Il poter legittimare un sopruso? Il poter disporre a proprio piacimento della mente di un altro? Oppure il saper convivere e sorridere assieme agli altri, forti di ciò che proprio Dio ha insegnato mediante le sue parole? Quante persone, in società, cercano di passare per santi andando in chiesa ogni domenica, macchiandosi poi di delitti o soprusi atroci e deliranti? Senza riempirsi la bocca di inutili paroloni atti solo a dimostrare una bigottagine anacronistica e per nulla costruttiva, la Savarese dimostra come la bontà di un animo puro riesca a squarciare il buio rappresentato da un dolore divenuto nel tempo cattiveria. L'autrice, pur facendo ridere fino alle lacrime, quindi, riesce a trasmettere la voglia di riflessione, l'istinto a elevarsi, l'importanza di una bontà mai priva di onore e gloria. Al di là, comunque, della riflessione intrinseca e dell'aspetto intimistico del romanzo, finché suocera non ci separi è il degno seguito del suo predecessore. I personaggi si susseguono in spassosi quadretti, facendo indignare, infuriare, sbellicare dalle risate, quasi desiderando di avere il potere di penetrare tra le pagine e poter modificare alcune scene davvero esasperanti per quanto reali. Mediante questo romanzo si torna, in un certo senso, a quelle commedie delle corti reali antiche in cui il pubblico era portato a interagire con gli attori, incitandoli ad agire in maniere differenti, additando il cattivo di turno, puntando il pollice verso con tanto di “buuuh” a far da cornice. Corinne Savarese convince, di nuovo, confermando di quanto talento sia colma. Decisamente sprecata nel self publish, spero vivamente in un suo possibile contatto futuro da parte di scout di case editrici grandi, com'è già accaduto per altri talentuosi suoi predecessori. Il chick lit italiano ha una nuova stella, degna di brillare come una supernova nei cieli dell'editoria nazionale. E questa cometa fissa pronta a solcare tali cieli è Corinne Savarese e il suo Finché suocera non ci separi.

sabato 26 aprile 2014

L'inizio di una favola di Silvia Cossio


L'inizio di una favola


L'hotel Piccolo Friuli si appresta a cambiare dirigenza e, con esso, forse anche tutto il personale. Per lo meno i dubbi di Ilaria riguardano il suo posto di lavoro, improvvisamente a rischio, nonostante il suo capo abbia assicurato a tutti quanti che l'eventualità di un licenziamento è ben lungi dall'essere reale. D'altronde il signor Claudio è stato lungimirante, nel momento della cessione: perché mai investire in altro personale quando si può avere il meglio sulla piazza e già addestrato? Mancano pochissimi giorni all'incontro con l'anziano dirigente, il Signor Ramos, e il lavoro si svolge febbrile alla reception, tanto che Ilaria è costretta a dover rimettere al proprio posto un impaziente e stupendo sconosciuto. Stupendo è dir poco. Affascinante, dai profondissimi occhi neri, fisico statuario. Un dio sceso in terra... Il dio dell'albergo. Si, perché ben presto Ilaria scoprirà che il bellissimo sconosciuto altri non è che il figlio del nuovo dirigente. Un figlio dannatamente impossibile da ignorare e sfacciatamente attratto da lei. Tanto da...

Silvia Cossio conduce per mano il lettore in una favola d'amore delle più belle e sentite, classica e nel contempo non troppo scontata. Rispettando i cliché del romance classico, la Cossio da sfoggio della sua bravura a catturare l'attenzione e a non farla mai cedere davanti a descrizioni tediose o prive di abbrivio. Per nulla timorosa di parlare un linguaggio colloquiale, privo però di qualsivoglia mancanza di stile, l'autrice intesse una trama frizzante, reale, accattivante ed estremamente moderna. Emoziona e sa di farlo, puntando i riflettori proprio sui punti salienti della vicenda, velando di pacata ironia quelli di minor spessore. Non conoscevo questa autrice, eppure dopo averla letta provo l'impulso irrefrenabile di andare a scovare e leggere altri suoi romanzi. Perché mi ha catturata, perché ha lasciato che evadessi dal mondo reale per immergermi in quello speciale di un'amore agognato da uomini e donne. Narrando della difficoltà che nel mondo moderno spesso si riscontra negli scapoli incalliti, non sempre così facoltosi come il nostro Jonas, di impegnarsi seriamente in una storia lasciando all'amore l'arduo compito di creare ordine e pace in un rapporto, la Cossio, fa emergere le differenze abissali e pur sempre vive tra gli spiriti femminili e maschili che, ahimé, continuano a essere agli antipodi gli uni dagli altri. Nonostante si continui a parlare dell'emancipazione femminile e di quanto le donne si siano sostituite agli uomini anche nel modo di intraprendere le relazioni interpersonali, si continua ad ascoltare storie di donne alle prese con uomini immaturi troppo timorosi di impegnare il proprio tempo in un amore, forse, troppo coinvolgente e colpevole di avvolgerlo e modificarlo dal profondo. Inoltre si affronta il tema della verginità oltre la maggiore età, argomento quasi dimenticato da molti, ma che, pur sembrando quasi un fatto anacronistico, è ancora ben presente nella società mondiale. Molte sono ancora le ragazze che tengono a valori intensi e puri quali la loro “prima volta” e la Cossio ha avuto l'intelligenza di porre tale argomento in primo piano, dimostrando quanto non sia ingenuità di alcuni pensare alla verginità in età adulta come a una chimera, bensì a un evento reale e possibile da riscontrare. Non è tutto sesso e dissolutezza, nonostante il mondo sia approdato nel 2014. I valori sono ancora ben presenti e molte donne sognano ancora l'arrivo del proprio principe azzurro, così come gli uomini ancora desiderano la donna acqua e sapone, anteponendo una personalità forte e caparbia alla mera bellezza fisica non supportata da altre qualità. Ritrovandomi a consigliare vivamente “L'inizio di una favola” e ripromettendo a me stessa il giuramento di cercare altri romanzi di questa promettentissima autrice, vi invito a sognare con Silvia Cossio, evadendo per un pomeriggio nelle suite dell'albergo Piccolo Friuli. Magari annaspando davanti a un paio di occhi neri, magari solo immergendo lo sguardo nei paesaggi suggestivi di una città, fin troppo ignorata in favore delle più famose “cugine”, quale è Udine. O semplicemente per puro spirito e desiderio di sognare a occhi aperti una favola ancora possibile. Forse per sempre possibile a chi è capace di non lasciare inaridire il proprio cuore, lanciando a briglie sciolte desiderio e passione.

giovedì 24 aprile 2014

Non c'è notte tanto lunga che tu non possa camminare ancora nel sole di Valerio Giovetti

Non c'è notte tanto lunga che tu non possa camminare ancora nel sole


Finalmente il giorno della laurea è giunto. Ha studiato, è preparata e pronta a sostenere l'esame che l'ammetterà di diritto nella schiera dei vari dottori che popolano il nostro paese. Amelia si guarda alla specchio, termina di truccare l'occhio con la matita nera e pensa che, in fondo, tutto quella situazione non le interessa. Tutto è al di fuori della sua vita, del suo pensiero. Ha un marito. Ha una storia disastrata e disagiata alle spalle. È una vittima e non sarà certamente una laurea a colmare i numerosi vuoti che l'esistenza le ha inferto negli anni. Finalmente il giorno della laurea è giunto ed è anche terminato, perché è pronta, ora, a far ritorno a casa. O forse non proprio a casa. Accetta di bere un drink con un professore, Gianni Michelini, appena conosciuto, ma non è nel pieno delle sue facoltà mentali, no? No. In effetti quando squilla il cellulare, al tavolino del bar dove sta sostando con l'uomo, in attesa delle loro bevande, Amelia si desta, si alza e, dopo essere andata in bagno, se ne va. Solo un suo anello, appoggiato distrattamente sul tavolino, ricorda a Gianni, il professore, che lei è effettivamente esistita. Amelia scompare, ma nessuno sembra prestarvi attenzione, mentre Gianni ha perduto da poco sua figlia e, stranamente, viene folgorato da tale evento. Il tutto prende inizio da qui.

Strano romanzo, questo di Giovetti, “Non c'è notte tanto lunga che tu non possa camminare ancora nel sole”. Un romanzo dal titolo lungo ma dallo scorrere breve, scorrevole e affatto tedioso. La vicenda, pur partendo dal punto di vista di Amelia, ben presto si snoda tramite i gesti e i pensieri di Gianni, uomo profondamente colpito dalla brutalità che, alle volte, la vita è capace di infliggere a ignari esseri viventi. La perdita della propria figlia, del proprio sangue; il termine del proprio matrimonio in conseguenza di un evento scioccante come questo; il rifugiarsi in una religione non tanto per la comunità su cui è incentrata ma per la presenza univoca di un essere superiore in grado di governare le leggi del mondo. Forse Anna, la figlia di Gianni, ora, è da qualsiasi parte nel mondo a osservarlo, a guidare i suoi passi, o solamente a sfiorargli la mano nei momenti bui. Non è forse questo il pensiero che accompagna chi vive abbandonato dai propri affetti in maniera repentina, inaspettata e, a volte, brutale? Anna non è morta per una malattia, seppure anche questa comporti pensieri e tormenti, ma per una tragica fatalità che aumenta il senso di angoscia del padre, seppur egli tenti disperatamente, anche inconsciamente, di non pensarci. Ed è forse per questo motivo che Gianni decide di gettarsi a capofitto lungo la tortuosa strada della ricerca di Amelia, della sua salvezza, intuendone un dolore latente, strisciante. Dovuto alla solitudine, alle brutture di cui è stata fatta oggetto da un destino crudele che, a volte, si diverte ad accanirsi verso animi fragili. In questo romanzo molteplici sono le sotto trame che si diramano, sviluppandosi attorno alla narrazione centrale che è quella della ricerca di una persona scomparsa, ma anche del proprio animo. Forse, mediante gli altri, ognuno di noi ricerca una parte di se stesso. Per essere migliore, per comprendere in fondo cosa il nostro subconscio voglia comunicare al mondo. Indagando in una società variegata e dalle numerose chiavi di lettura, popolata dall'omosessualità come dall'omofobia, dalla velata pedofilia alla tanto osannata ricerca del bene, Gianni scopre di essere profondamente chiuso in se stesso. Trincerato dietro la routine che ostenta come una bandiera, la ricerca alla volta di Amelia rende possibile una sua introspezione. Dopo la separazione dalla moglie, infatti, l'uomo vive lasciandosi vivere, non essendo lui stesso l'artefice delle proprie giornate e delle proprie scelte. Rifiutando, come sovente accade alle persone toccate da gravi disgrazie o semplicemente dalla fine di relazioni che rappresentavano il loro normale iter giornaliero, qualsiasi contatto con il sesso opposto, con l'avventura, con ciò che rende solitamente una vita degna di esser vissuta. Non esistono relazioni, seppur di breve durata, perdurano tabù forti e costrizioni mentali che limitano ciò che dovrebbe esser vissuto con spontaneità priva di vergogna. Come, invece, dimostra di saper fare l'amico di Gianni, Andrea. Considerato per alcuni versi immaturo, Andrea rappresenta nel contempo l'angelo e il diavolo della coscienza di Gianni, o di tutti noi, volendo ampliare lo spettro d'indagine. Andrea sa e vuole divertirsi, ma è vittima di preconcetti latenti in ogni persona, nonostante questa si ostini a considerarsi migliore del prossimo. Numerosi i personaggi di Giovetti, ognuno però con una propria personalità e con un proprio ruolo ben definito, atto a testimoniare parte della società italiana in cui si vive. Forte si evince il contrasto tra i vecchi ancora in vita, quelli legati alla vecchia generazione fatta di politica e critica, carica di preconcetti e per nulla indulgente verso il diverso, e le persone che popolano il mondo moderno, così vario nell'accettazione del proprio io. In ogni paese vi sono tali concetti, sempre più evidenti nelle piccole frazioni di città. Ma tale contrasto è poi proprio solo di questo tempo? Oppure è una peculiarità riscontrabile nel mondo intero e nella storia passata e futura? I giovani di oggi saranno gli anziani di domani e i concetti che noi consideriamo moderni e pregni di significato all'avanguardia, saranno i pensieri obsoleti che insulteranno le menti giovanili del futuro. In fondo la vita è un cane in perenne corsa verso la propria coda, alla ricerca costante del dolore di azzannarla e la gioia di farlo. Gianni lo comprende, Amelia ne è ben cosciente, così come tutti noi, in fondo. Giovetti crea un mondo reale, nel suo “Non c'è notte tanto lunga...” e il significato del suo titolo così lungo e ostico, all'apparenza, risulta chiaro nelle ultime battute del romanzo. Un romanzo da leggere per indagare l'animo umano, comprendere qualcosa in più di se stessi e del mondo che circonda noi tutti, spingendo alla riflessione e all'accettazione del prossimo senza calcolare il proprio benessere. Perché tramite il bene, quello diviene conseguenza naturale.

martedì 22 aprile 2014

Un tramonto a Thera di Emanuela Locori

Un tramonto a Thera (Passioni Romantiche)
Thera, città a ridosso sul mare, così lontana da Mantova, così lontana da Elisabetta. Elisabetta, donna risoluta, attenta, sensibile, pronta a perseguire l'ideale di bimba di ripercorrere le orme paterne imitando, del genitore, le gesta e il mestiere. Thera ed Elisabetta sembrano legate da un filo invisibile, ma forte e quasi indissolubile. Cosa può far da collante tra la donna e la terra marittima greca? Il fato. Un fato beffardo, un fato che disegna, con colori audaci e mai tenui, una storia di amore intenso, divampato come fuoco improvviso da braci sopite. Un fato costituito da occhi azzurri e glaciali, carattere fermo e autoritario, dalle note a volte tenere e delicate, e un mistero che velatamente ne accresce il fascino. Siamo nei primi anni del 1300, a Mantova, ed Elisabetta attende al capezzale del padre di poter conferire con lui circa le sue aspirazioni. Aspirazioni che la condurranno lontana dalle braccia paterne, lontana dalle terre conosciute d'infanzia. Accompagnata e sostenuta dalla fedele nutrice, la donna migrerà a Venezia al fine di diventare medico, praticando gli studi già iniziati, mettendo in pratica un'esperienza rubata con gli occhi, udita fugacemente con orecchie attente. Ma... Per perseguire il suo sogno ci vuole denaro ed Elisabetta non ne dispone a sufficienza per poter permettere alle proprie aspirazioni di spiccare il volo come sarebbe loro desiderio. Ed è così che l'arruolamento sulla nave del Venier sembra arrivare provvidenziale, quasi come si trattasse di un'occasione studiata dal destino per aiutarla nell'impresa. Oppure no? Spacciandosi per il mozzo Daniel, Elisabetta riuscirà a racimolare il denaro necessario al conseguimento del suo sogno? Emanuela Locori, autrice esordiente con Delos, ma dalla penna niente affatto tremula o priva di talento, narra le vicende di una donna forte, perspicace e audace. Profondamente immerso nel contesto storico in cui è portato a viaggiare, il lettore viene catturato in un momento dal carattere gioviale e determinato dell'eroina, dalla sua sete d'avventura, nonché dalle onde sinuose che la conducono lontana da Venezia e vicina a un cuore affine. Non è semplice costruire un racconto di genere storico, specialmente per un autrice che, sulla carta, è alle prime armi con la narrazione di genere. Eppure il lettore non percepisce mai, neanche per un momento, il dettaglio che a scrivere “Un tramonto a Thera” sia un'esordiente. Il linguaggio ricercato, ma nel contempo non ampolloso, elegante ma non troppo appesantito da fraseggi complicati, rende la narrazione scorrevole, agevole, facilmente accessibile a chiunque voglia accostarsi a una lettura. Ed è questo, in fondo, ciò che serve affinché i lettori si appassionino a una storia, a un contesto, a dei personaggi ben delineati grazie all'immediatezza delle scene e al loro susseguirsi in maniera naturale e mai artefatta. E la Locori possiede una naturalezza estrema nell'arrivare al centro carminio del lettore, non lasciando mai che egli subisca sorta di noia o perda un abbrivio ottenuto fin dalle prime battute. Dimostrando come l'esperienza di anni di letture e sogni ben sviluppati paghi su innumerevoli studi stilistici e di tecnica, non supportati da un talento innato ma creato a tavolino, a volte privi dell'empatia adatta a saper trasmettere emozioni, l'autrice tratteggia personaggi dai caratteri forti, decisi, che pagano forse, nelle proprie gesta, la brevità voluta dal racconto e che troverebbero maggior respiro in un romanzo che possa fornir loro lo spazio adeguato di cui necessitano e che, a mio avviso, meriterebbero. Sperando davvero che questo racconto sia soltanto l'inizio per un'intensa carriera letteraria e narrativa, date le qualità di cui fa sfoggio Emanuela Locori, edita da Delos (tanto per non dimenticare che è stata scelta, selezionata e voluta...) consiglio vivamente la lettura del suo Tramonto a Thera, racconto dal profumo intensamente romantico e travolgente, condito, inoltre, da alcune note erotiche che, a dir la verità, non guastano e fanno ben sperare.

sabato 19 aprile 2014

Il canto del cuore di Macrina Mirti


Il canto del cuore (Passioni Romantiche)


Domiziana è una fanciulla cresciuta all'ombra di regole e comportamenti degni di un nobile. D'altronde lo è, figlia del sovrano Rufo. Siamo nel 569 e le guerre, pian piano, sul suolo di quella che diverrà Italia, si susseguono. Piccoli e grandi scontri atti a cementificare egemonie e nuovi insediamenti, destabilizzando ordini da anni consolidanti e costruendone di nuovi. Vi sono tangibili minacce a minare la pace del regno di Rufo, ma Domiziana è una ragazza con mente prettamente adolescenziale, avvezza all'insubordinazione e incline alla sperimentazione dell'avventura. Forte di questo suo carattere ribelle, la fanciulla decide di inoltrarsi nei terreni limitrofi alla villa del padre, complice un passaggio segreto di cui nessuno sembra essere a conoscenza. Proprio nel mezzo di un bagno ristoratore nel lago attiguo alla villa patrizia, però, due barbari fanno la loro comparsa, le vesti candide della fanciulla in una mano, un ghigno famelico e maligno dipinto sul volto. È la fine di Domiziana? Verrà posseduta con forza fino alla morte? Non vi è altra salvezza che il suicidio nelle acque profonde del lago. Meglio l'ottenebrarsi della mente per sua mano piuttosto che per quella di uomini scaltri e dai desideri sordidi fin troppo evidenti. Ma non sarà la fine di Domiziana, salvata in extremis da Neherem, soldato agli ordini di Rufo e uomo d'onore. Nonostante il bellatores sia un goto di origini, infatti, è il primo soldato del sovrano, colui di cui si fida. E giustamente, dato che, a discapito della pace stessa del regno, egli porrà fine alla vita dei barbari traendo in salvo una sconvolta Domiziana. Quell'episodio sancirà l'inizio della fine o l'inizio di un canto, quello del cuore, capace di avvolgere con la sua melodia anche l'animo più duro e, all'apparenza, freddo? Tanta la carne al fuoco, in questo racconto lungo scritto da Macrina Mirti per “Passioni romantiche”, tante le chiavi di lettura in uno storico che non ha nulla da invidiare ai romanzi considerarti tali per lunghezza. La realtà è che “Il canto del cuore”, nonostante la brevità, cattura ed esalta, lasciandosi leggere in meno di un battito di ciglia, tanto è ben congegnato. Dal linguaggio colto ma fluido, Il canto del cuore narra le vicende di una fanciulla che ancora deve scoprire il mondo ma che ha già conosciuto il dolore della perdita. Forse è mediante esso che Domiziana crede di sapere tutto, di aver vissuto tutto e di essere in grado di scrutare in fondo agli animi delle persone di cui si trova al cospetto. Come ogni adolescente che si rispetti, d'altronde, convinta in ogni momento di possedere una conoscenza profonda della vita e del mondo. Ma la morte riesce a gettare un velo di nitidezza nei suoi occhi, svelando anche quanto la rudezza dei comportamenti di Nehrem sia dovuta a un carattere introverso e serio, capace di celare sentimenti grandi e puri in nome di un rispetto consolidato nel tempo. Perché il rispetto, a volte, è molto più importante dell'amore stesso. Ogni personaggio del racconto è ben delineato, come davvero facesse parte di un contesto di più ampio respiro, come se le parole avessero il potere di dilatarsi per consentire una conoscenza più dettagliata di ogni singolo carattere. Mai, durante la lettura, si cade nella noia o nello scontato. Mai si rimpiange il fatto di non leggere un romanzo di più pagine, proprio per la sapienza che ha l'autrice di intessere la sua trama in maniera puntuale e minuziosa, non tralasciando nulla al caso, saziando ogni piccola curiosità mediante parole ben studiate e dosate. Il canto del cuore trasmette amore, complice anche il contesto storico che perfettamente si presta al compito, riuscendo ad avvolgere la mente del lettore in maniera tale da trasportarlo in altri luoghi il tempo necessario a conoscere le intricate trame che nel racconto si sviluppano. Macrina già c'è stato modo di conoscerla in passato, tra le mie pagine, ma conferma ogni volta quanto scrittrice sia il nome di cui si può fregiare senza dubbio alcuno. Consigliato a chiunque, Il canto del cuore è un racconto godibile adatto a qualsiasi pubblico, anche a quello non avvezzo alle storie romantiche ma desideroso di essere trasportato nel tempo alla continua ricerca di emozioni forti date da altri contesti in altri luoghi. Spero davvero presto di poter godere di un romanza di questa talentuosa autrice, perché sono certa sarebbe un'altra ottima prova.

giovedì 17 aprile 2014

Rivelazioni di Letizia Draghi


Rivelazioni (Senza sfumature)


Alessia attende fiduciosa, seduta al tavolino del bar, che si presenti la donna raffinata che le ha commissionato il suo prossimo lavoro. Una nuova sala di genere erotico. Che tipo sarà? E, soprattutto, quali saranno i temi sui quali la futura architetta dovrà concentrarsi per replicare il successo ottenuto con la sala delle punizioni di Martini? Incinta, ancora non si sa se del suo Volto d'Angelo o del suo precedente amante, Alessia Delfini vivrà nuove ed esaltanti avventure del tutto fuori dall'ordinario. Più di ogni altra cosa, fuori totalmente dagli schemi mentali con i quali è sempre cresciuta e vissuta. Letizia Draghi, già conosciuta al pubblico lettore con le sue precedenti opere edite da Delos, torna a narrare le vicissitudini della sua eroina, ormai diventata una sorta di immagine cult della collana “senza sfumature”. Anche questa volta, come lo è stato nelle precedenti, mediante la frizzantezza del linguaggio e la classe priva di volgarità anche nelle scene più calde, la Draghi indaga l'animo umano rivelando quanto i tabù limitino il vero essere di un individuo. Come ne “La sala delle Punizioni”, ma ancor di più in Bodysushi, l'autrice svela quanto i comportamenti e i caratteri individuali, sovente mal giudicati da una morale a volte pesante, siano essenziali e parti integranti della società moderna. Nonostante non siano di dominio pubblico, infatti, molte di quelle che vengono chiamate perversioni sono stili di vita propri di moltissime coppie. I ruoli ben definiti in ambito sessuale, così come i giochi che da essi possono scaturire in un susseguirsi di piaceri sconosciuti ma non per questo condannabili, sono atti a testimoniare quanto nessuno abbia il diritto di giudicare il prossimo, libero e padrone, invece, di esternare in piena libertà la propria pulsione latente. La Draghi, a tal proposito, è bene attenta a usare dei distinguo ben chiari tra i vari ruoli che la società bigotta vede come perversione derivante da qualsivoglia trauma esistenziale. Vi sono, infatti, moltissime coppie che trovano la loro perfetta dimensione in giochi che non sempre incontrano il favore e il gusto degli altri, non rivelando, però al contempo, il fatto che essi stessi siano condannabili o esecrabili dal punto di vista sociale e morale. E un punto di assoluta importanza lo si evince nel momento in cui si spiega perfettamente la differenza tra pulsioni sessuali tra persone consenzienti e perversioni vere e proprie di chi prova gusto e piacere nella violenza e nell'utilizzo della propria forza ai danni di individui più deboli. Gioco sessuale, quindi, non equivale a violenza carnale o egemonia del più potente. La verità nuda e cruda, come il racconto stesso lascia intuire, è che in Italia ancora non vi è quella libertà sessuale che invece sembra imperare in altri stati. Forse per cultura, forse solo per rispetto altrui. Non significa che il sesso tradizionale non abbia la sua valenza, ma si testimonia come anche quello cosiddetto “alternativo” possa e debba trovare la propria connotazione e collocazione legittimata nell'universo moderno così all'avanguardia per tantissime altre cose. Aldilà del fattore sessuale e delle varie scene erotiche che, come sempre, vengono descritte in maniera molto sofisticata dall'autrice, “Rivelazioni” rimane una bella storia d'amore da scoprire e dalla quale lasciarsi trasportare. Sergey rimane l'uomo russo dal fascino incorruttibile e Alessia la solita anima romantica, ammansita forse un poco per via della dolce attesa del piccolo che comincia a crescere nel suo grembo. Di rilevanza assoluta la tenerezza che dal racconto emerge, come a testimoniare che nel sesso non vi è nulla di “sporco” o innaturale e che una gravidanza non ne pregiudica in alcuna maniera l'atto che, d'altronde, proprio alla nuova vita ha condotto in precedenza. Molti gli spunti di riflessione, quindi, come in ogni racconto di Letizia, nonché momenti ilari e scanzonati che, assieme alle componenti erotiche fanno di “Rivelazioni” un nuovo racconto perfettamente in linea con la collana erotica più gettonata del momento, ovvero quella della Delos Digital “Senza Sfumature”.

mercoledì 16 aprile 2014

ll mistero di Owland di Ilaria Sandei

Il mistero di Owland (Fantasy Way)


Difficile, veramente troppo difficile vivere in una realtà come la sua, per Davide. Beh, il problema fondamentale è scaturito da quando i suoi genitori si sono separati. È da li che è iniziato tutto ed è li che, in un certo senso, tutto è terminato. L'affetto tra e dei suoi genitori, per esempio, è terminato. E anche la sua voglia di stare in casa, di lasciare che le mura domestiche lenissero ogni piccola sconfitta o esaltassero ogni infinitesimale vittoria. A scuola, poi, c'è Luca, il bullo, che non lo lascia un momento in pace. Insomma, sarebbe stupendo lasciare tutto, abbandonare i pensieri cattivi, trovare una sorta di mondo parallelo nel quale tuffarsi a capofitto, conoscendo amici veri, essendo coccolato dall'abbraccio e dal sorriso di adulti buoni e desiderosi solo il suo bene. E se tutto ciò fosse possibile? Se quello che sembra un semplice orologio avesse il potere di catapultare Davide in un universo distante, popolato da animali meccanici, per esempio? Come evolverebbe la sua vita? In meglio, sicuramente. Ma è davvero così? Lontano dai suoi affetti, dai suoi amici più intimi, dalle piccole sconfitte che, comunque, fanno parte della sua vita... Immerso, poi, in un mistero fitto che lo pone al centro di un'intricata e macabra storia in cui i bambini scompaiono improvvisamente dalla città di Owland... No, non può essere una situazione probabile, un evento possibile, eppure...

Ilaria Sandei, autrice classe 1994 crea, durante i suoi ultimi anni di liceo, un romanzo fantasy per ragazzi dalle tinte horror ben studiate e riesce, con “Il mistero di Owland”, a far appassionare un lettore adulto quasi si trattasse di una piccola Rowling in erba. Scettici? Beh, scordate ogni cliché del fantasy convenzionale moderno, creato sulla base di Tolkien e popolato dai soliti gnomi, hobbit e orchi. No, la Sandei ripesca il vecchio fantasy italiano, quello che per anni ha affascinato schiere e schiere di bambini, facendolo suo e riuscendo ad accattivare la simpatia del lettore con semplicità e acume. Il mondo fantastico degli animali, dei boschi inquietanti, delle piccole città parallele, della corsa contro il tempo. Un mondo nel quale fidarsi degli adulti è ancora possibile, in cui gli artigiani invitano i bambini nelle loro botteghe offrendo loro gioia e piccoli momenti di felicità, in cui un'amicizia è capace di nascere nel termine di pochissimi attimi, destinata con tutta probabilità a perdurare in eterno. La Sandei, in maniera travolgente e per nulla semplice, immerge il suo piccolo lettore nel mondo incantato di Owland, per nulla bello e fatato come l'isola che non c'è, nel quale avvengono omicidi, nel quale i bambini vengono rapiti da un folle e tramutati in animali meccanici, testimoniando come non bisogni fidarsi di nessuno, neanche in tenera età, e che nulla è mai per come appare. E nonostante la giovinezza di questa autrice, i temi trattati all'interno del Mistero di Owland sono chiari, diretti e molto profondi. Aldilà della bella storia che tesse l'autrice, infatti, vi è l'universo quasi accantonato del bambino in procinto di diventare adolescente. Le speranze e le sofferenze che ne popolano i giorni, infatti, tendono sempre a essere sottovalutate dagli adulti che, invece, dovrebbero prestare molta più attenzione agli indizi psicologici che i loro figli lanciano. Troppo spesso inclini a un egoismo non voluto ma quasi necessario, infatti, i genitori sono volentieri inclini a punire i propri figli per qualche parola di troppo, per quella che viene travisata e intesa come insubordinazione, magari causa effetto di un principio di ribellione adolescenziale dovuto al carattere o agli ormoni in subbuglio. Beh, molto spesso non è così. Molto spesso i discorsi accorati, le lacrime cocenti di un dodicenne e il suo urlare frustrazione e rabbia sono indice di una sofferenza interna, di una voglia di richiamare un'attenzione non donata perché prede, gli adulti, della quotidianità e della routine che troppo spesso li inghiotte, travolgendo affetti e relazioni. La Sandei, in questo, è molto chiara e se è vero che nelle favole vi è sempre racchiusa una morale, nel romanzo fantasy di Owland vi è un significato ramificato e ben visibile. La richiesta di comprensione, riconoscendo il bambino e il ragazzo come una persona e non come un individuo troppo piccolo per capire. La richiesta di pazienza e attenzione, atte a valorizzare il carattere e la personalità in formazione del ragazzino che si sta tentando di formare. Crescere un ragazzo non è soltanto il fornirgli vitto e alloggio, ma anche rappresentare un porto sicuro in cui rifugiarsi, cercando di non dimenticarne mai l'importanza. Chi meglio di una ragazza appena uscita dalla fase adolescenziale può testimoniare tutto ciò? La Sandei dimostra una maturità, in questo suo libro, davvero ammirevole. Inoltre devo ammettere che mi ha riportata indietro di anni, a quelli che quando ero piccola chiamavamo libri game. Indovinelli, rebus, cruciverba e un'infinità di indizi atti a divertire e incuriosire il piccolo e il grande lettore. Ogni capitolo è contraddistinto da due pagine in rima, atte a svelare parte della trama che ci si accinge a scoprire nella prosa, fornendo anche la possibilità, per il ragazzo, di interessarsi non solo al libro classico, ma anche al testo poetico che in età moderna è fin troppo bistrattato. Il mistero di Owland, quindi, non è solo una buonissima lettura per i bambini cresciuti che iniziano ad affacciarsi alla loro epoca adolescenziale, ma anche un valido manuale di introspezione per il genitore, che ha la possibilità di indagare nel proprio animo valutando le proprie azioni nei confronti dei propri figli. Una visione superficiale della lettura vorrebbe che questo libro rimanesse relegato a un pubblico adolescenziale, io credo invece che sia una lettura adatta a chiunque. Non fosse altro per intenerirsi tornando indietro di parecchi anni, alla ricerca del bambino che è annidato nel proprio cuore, soverchiato, magari, da anni di quotidiano e stress e desideroso di uscire allo scoperto per divertirsi ancora e ancora. Magari col proprio figlio o magari da solo. Nessuno cresce mai abbastanza...

lunedì 14 aprile 2014

Due di Andrea Biondi


Due

Romano? Si? Romano, ricorda le distanze.
E Romano alle distanze sta attento. Inizialmente, per lo meno. Il problema è che questa Giulia è così maledettamente bella. Anzi no, è proprio figa! E il fatto che dimostri di provare un qualche recondito interesse per lui è un evento a dir poco scioccante, sconcertante, se vogliamo. Potrebbe rovinare tutto, con il suo solito modo di fare, Romano. In fondo, però, a pensarci bene... Lui rischia di morire! Lui, diamine, rischia sul serio di morire. Questo è quello che gli ha detto la ragazza, questo è quello che gli indizi nella sua vecchia casa di montagna sembrerebbero confermare. Storie di fascisti, storie della sua famiglia, di cui lui sembra totalmente ignaro. Suo nonno come diavolo è morto? Possibile che lui non sappia in che modalità ha visto la sua fine il padre di sua madre? Impossibile, in effetti... Eppure questa Giulia sembra saperne più di lui. Ma poi, questa Giulia, chi è? Già, chi è Giulia?
Romano? Si? Romano, le distanze!

Come definire il romanzo di Andrea Biondi? Irriverente e ironico thriller? Inconsueto storico dalle tinte umoristiche? Come? Una vera definizione non c'è. Si può dire, però, che si tratta indubbiamente della meravigliosa prova scrittoria di uno autore, ora emergente, che al suo romanzo d'esordio dimostra una bravura inconsueta nel catturare il lettore incuriosendolo nel divertimento di scoprire i suoi personaggi. Diciamocelo. Solitamente solo i thriller d'oltreoceano fanno ridere, per lo più, oltretutto, quelli che vengono trasposti in versione televisiva o cinematografica. È raro che un autore italiano riesca in un'impresa tanto ardua e il fatto che, tra le righe di questo romanzo, sia rintracciabile ciò che della nostra Italia è ancora puro, il dialetto, è una marcia in più che non guasta assolutamente. Attingendo alle radice profonde facenti parte il lettore, infatti, Biondi consente a chi lo legge di immedesimarsi, calandosi nei contesti descritti, anche in quelli storici. Due non è solo un titolo per un romanzo ben scritto e talentuosamente intessuto, infatti, bensì rappresenta tutto il dualismo che la vita di una persona rappresenta. Due sono i contesti storici narrati, due le voci narranti, due le personalità di ogni personaggio, due i luoghi del passato e del presente. La voce di Romano, dissacrante e tremendamente divertente, si somma a quella più mite e insicura di Giulia, creando il look perfetto di una storia che affonda i ricordi in misteri di cui noi italiani siamo veramente poco informati. Italo Balbo, la sua morte, la guerra in Libia, il fuoco amico, i tesori nascosti dei fascisti che, forse, neanche saranno più trovati. Biondi riesce, in maniera semplice, quasi come bere un bicchiere d'acqua, a creare una storia avvincente, dalle tinte noir, con tanto di smilzo e ciccione, capo figo e sorridente dai vestiti dal taglio elegante e sofisticato, e vecchio misterioso a capo dei servizi segreti italiani. Una sorta di “Piazza delle Cinque Lune” in chiave romagnola, descritta però con un'ironia e una simpatia che hanno dell'incredibile. Sovente ci si trova a ridere di gusto davanti ai dialoghi interiori di Romano, così perfettamente naturali e giusti. E il dualismo espresso dal Biondi risiede anche in questo. Si evince, in effetti, quanto la voce interna della coscienza rispecchi in pieno il carattere reale di una persona e quanto, invece, sia differente dall'aspetto mendace di cui ci si vuole vestire in società. I pensieri di Giulia anche hanno lo stesso scopo, ma risultano meno incisivi, forse soltanto perché la personalità dell'uomo è semplicemente più interessante e accattivante. La storiografia del romanzo è ben delineata e si comprende lo studio dettagliato che l'autore ha condotto per donare al lettore un lavoro il più possibile corretto e pulito, riuscendoci per altro in maniera esemplare. Non c'è che dire, la lettura di Due è stata altamente piacevole, scorrevole ed estremamente divertente. Tutti noi vorremmo avere un Romano pronto a farci fare due risate, esternando quei pensieri che abbiamo, in effetti, all'interno delle nostre coscienze ma che difficilmente riusciamo a palesare con comportamenti e parole. Oltretutto con la capacità di sdrammatizzare situazioni difficili, al limite della sopportazione psicofisica. Ma quel Romano, in fondo, potrebbe essere chiunque, se solo ogni persona riuscisse a non commiserarsi, piangendosi addosso per ogni minimo ostacolo, trovando il lato ironico e, mediante questo, riuscire a godere di ogni istante della vita come se fosse l'ultimo. Arrendersi mai, provare sempre una via di fuga, un modo di risolvere i problemi prendendoli di petto e non aggirandoli o scappando. Perché scappare non è mai una soluzione e il Biondi, in questo, è chiaro. L'ironia e la simpatia, con un sorriso a far da sfondo, possono più di un cazzotto ben assestato. Poi certo, la fortuna è sempre ben accetta! Davvero un'ottima prova d'esordio, questo Due, al quale, potete starne certi, seguiranno altri mirabili lavori. Per il momento credo proprio che leggerò il secondo romanzo di Biondi, uscito nel 2013, rimanendo in attesa di quello di quest'anno. Perché un autore così non credo abbia la possibilità di fermarsi qui, avendo il compito sacrosanto di continuare a scrivere per i lettori che lo hanno letto, apprezzato e che desiderano seguirlo.   

venerdì 11 aprile 2014

Morsi di morte di Anton Francesco Milicia


Morsi di Morte

Padre Matteo è un pretucolo di campagna, assegnato al gregge sparuto e incanutito di un piccolo paese della campagna calabrese. Beh, non è proprio una chiesa canonica immersa nel clima gioviale della gioventù in boccio, quella in cui serve messa, ma i patti con i superiori sono stati chiari e concisi. Pur di salvarsi la pelle, infatti, Padre Matteo è scappato dalla grande città e da un'accusa infamante e dannatamente seria. Abuso sessuale, gente. E che abuso. E mica solo di un minore... No, di ben diciassette ragazzini. Solo uno di loro ha sempre insistito a dichiarare la sua innocenza, pur remando contro la moltitudine di coetanei che invece proclamavano l'abominio ricevuto. Ma tant'è... Padre Matteo, resistendo strenuamente contro l'impulso malato della sua mente, continua a sopravvivere in quella piccola chiesa di campagna. Però qualcuno sa, qualcuno ha capito... E non solo in città.

Inizia così il breve racconto di Antonio Francesco Milicia, autore esordiente ma dalla penna straordinariamente colma di talento. Si, ragazzi, talento. Perché non è semplice tessere la trama fitta di una storia intricata come quella che ha descritto, nel suo “Morsi di morte”. Come in una ragnatela, come lui stesso definisce il mondo in cui si muove uno dei personaggi chiave della narrazione, Milicia produce, a ogni piccolo passo, un filo di seta capace di intessersi perfettamente, creando ricami senza difetti alcuni, non lasciando assolutamente nessun dettaglio al caso. Il lettore è portato a leggere febbrilmente pagina dopo pagina, non subendo per nulla la brevità del racconto. Come se fosse riuscito a costituire, grazie alla penna, un piccolo mondo, Milicia riesce ad accattivare, esaltare e incuriosire, trasmettendo ansie e angosce proprie delle vittime descritte. La denuncia della pedofilia clericale, argomento purtroppo in auge nei tempi moderni, riesce a essere incisiva per quanto l'autore non si soffermi affatto sui particolari scabrosi che, sovente invece, tendono a tempestare le pagine dei quotidiani nazionali interessando per la loro morbosità più che per l'evento in sé. È possibile riscontrare, inoltre, la testimonianza di come lo sconforto e il danno mentale e psicofisico di tale reato siano in grado di insinuarsi nell'abusato, creando un mondo parallelo di realtà distorte, capaci di giustificare in qualche modo gli impulsi primordiali di una voglia di rivincita sull'aguzzino, agognando a una sua fine in maniere insospettate e insospettabili. È sconvolgente come, in effetti, Milicia riesca in sole ventiquattro pagine a rendere il senso di ansia, di ingiustizia, di pazzia latente e conseguente a un abuso infantile. È sconvolgente come un autore esordiente riesca laddove molti suoi colleghi di più elevato spessore e con mezzi altamente superiori a disposizione hanno fallito in passato. Un thriller, dai risvolti fantastici con brevissimi accenni all'universo horror, solo accarezzato, quest'ultimo, nonostante, forse in un contesto più ampio, sarebbe entrato di rigore e diritto nella narrazione sposandosi perfettamente al contesto socio culturale descritto. Magistrali le frequenti metafore utilizzate che riescono a rendere perfettamente determinate scene altrimenti scomode e crude nel contempo. Insomma, al suo primo lavoro Milicia dimostra di avere tutte le carte in regola per sfornare un lavoro di più ampio respiro, come un romanzo, non deludendo, comunque, sul genere breve del racconto. In attesa di prossimi sviluppi futuri, che so per certo sono in arrivo a breve, non posso far altro che consigliare la lettura del suo “Morsi di morte”, complimentandomi con lui e con il fato che ogni tanto col suo zampino riesce a mettermi sulla stessa strada di validi autori.  

martedì 8 aprile 2014

I Marmi di Carlo Campani e Paolo Cecchini

I marmi


Possibile che le persone non debbano esser lasciate in pace neanche dopo la loro morte? Possibile che, anche nella sacralità dei marmi immobili del cimitero di Trespiano, la perversione debba toccare punti di inaudita violenza? La povera ragazzina Vittoria Gori è stata quasi trafugata e, certamente, toccata in maniere poco usuali a ciò che un cadavere richiederebbe, mentre un ragazzo, pronto a una delle classiche prove di coraggio indette dalla sua combriccola, è stato quasi ammazzato proprio in mezzo al cimitero, lasciato agonizzante alle porte della cappella della giovane. Cosa diavolo sta succedendo a Firenze? Perché, ora, sembra vi siano trafficanti di salme e necrofili pronti a saziare le proprie infide voglie su corpi inermi come quello dell'innocente, quanto rinomata, ragazzina? Settembrini, il vicecommissario della Regia Questura, se lo chiede interdetto, aggrottando la fronte, nel suo incedere quasi claudicante tra i marmi, nella sua andatura resa lenta e instabile da una vecchia ferita di guerra. Di certo non si metterà a correre per inseguire i colpevoli, per quello sarà sufficiente la mente abile e scaltra di cui è dotato. D'altronde al suo servizio ha il Masi e lo Scodellini che in quanto a forza fisica e d'animo non hanno nulla da recriminare a nessuno. Certo, non si potrebbe dire la stessa cosa dello Zipolo, ma nessuno può sapere, fino in fondo, di cosa sia capace il nuovo arrivato napoletano. Napoletano in terra fiorentina, una cosa quasi da ridere. Ma torniamo a noi, al reato, al tentato omicidio. Perché a questo, tra poco, si aggiungerà anche il ritrovamento inquietante del cosiddetto “Mezzasalma”. Quello si che è un bell'inghippo, per il Settembrini. Ma poi c'è la strana scomparsa del Tocci, la sua malsana collaborazione con lo Sterra, il becchino del cimitero, e poi il Giacomoni e... Mio Dio, tutti questi personaggi in un romanzo solo senza creare confusione alcuna? Oh si. Oh si, Campani e Cecchini lo hanno fatto e ne hanno aggiunti anche degli altri, magistralmente, senza assolutamente divagare in nessun particolare. Beh, a dire il vero un pochino si, ma solo apparentemente. Ma torniamo nei ranghi, in modo tale da riuscire a spiegare qualcosa de “I Marmi”. Spiegare... No, non potrei. Per il semplice motivo che rischierei, a ogni dettaglio, di rivelare parti interessanti e salienti di un romanzo che sembra costruito a tavolino pezzo per pezzo. Narrata con una maestria quasi inaudita, la storia de I Marmi incastra, come in un complesso puzzle, pagina dopo pagina, tasselli indispensabili alla risoluzione di un caso ancor più grande di quello che si intuisce fin dalle prime pagine. Ambientato nei primi anni venti del secolo scorso, subito dopo la marcia su Roma, nel pieno fulgore di un fascismo pronto a inerpicarsi, come un'edera, per i muri di un'Italia ancora sofferente per la guerra passata, I Marmi testimoniano la realtà di una Firenze normale, una Firenze scaltra, per alcuni versi cattiva e insensibile, ma densa di una dignità perduta nel tempo. Come fece il Gadda anni prima, riprendendo una struttura linguistica e stilistica simile, Campani e Cecchini propongono il classico noir, condito dai vari dialetti che fecero dell'Italia, molto più in passato che in epoca moderna, quel Bel paese che ancora il mondo, in qualche modo, ci invidia. Meta di stranieri attratti dalle bellezze del paese, nonché dalla buona cucina e dalla giovialità, forse in alcuni casi solo apparente, delle piccole frazioni cittadine, l'Italia emerge ne I Marmi forse più che di Firenze stessa, ambientazione scenografica dei fatti narrati. Descrivendo in maniera acuta, intelligente e puntuale l'avvento del fascio, di un Mussolini non edulcorato e della Milizia, esercito innovativo atto a soverchiare la sovranità delle autorità fino a quel momento centrali e importanti, Campani e Cecchini immergono il lettore in un mondo quasi in bianco e nero, sfocato, come nei film anni '40. dal fumo di sigarette altolocate e serie, intellettuali, quasi legittimate nella loro erudizione. Nel romanzo vi sono tutti i canoni classici del noir, dalla bella vedova dall'aria misteriosa al vice commissario integerrimo e incorruttibile, dal sottoposto un po' fessacchiotto ai poveracci della cittadina, colpevoli di un'ignoranza atavica. Vi sono i morti e il mistero che vi si cela dentro, i colpi di scena a non finire e l'assassino strano, deviato, ben differente da quelli descritti nei gialli d'autore. Forse proprio il luogo deciso dagli autori per inscenare il loro romanzo rende I Marmi così originale nonostante il genere quasi scontato. Non è semplice scrivere noir, proprio per la semplicità con cui si rischia di cadere nella banalità. Come in un racconto narrato da Lucarelli, ad esempio nella sua dissertazione circa i delitti del Pacciani, la storia di Alceo Cori si mescola a quella del Settembrini percorrendo vie parallele ma congiunte tra loro da linee sottili. Due personaggi agli antipodi, collegati tra loro soltanto dal luogo d'origine, dall'ironia feroce di cui si fa vanto, specialmente in taluni casi, la città di Dante e da un dialetto che riesce a sembrar simpatico nonostante la brutalità degli atti narrati. Non si riesce a non sorridere nel leggere i dialoghi tra i becchini del cimitero di Trespiano. Non si riesce a non essere indignati davanti al Fracassi, alla sua ampollosità nell'essere così dannatamente fascista e miliziano, non si riesce a non provare deferenza e rispetto al cospetto dell'integerrimo Settembrini. La polizia acquisisce di nuovo quella dignità che, nel tempo, ha perduto, testimoniando come, assieme ai Carabinieri, l'epoca del secolo scorso fosse pericolosamente migliore di quella moderna. Nonostante l'avvento della seconda guerra mondiale, nonostante il potere e i suoi giochi cattivi e privi di empatia alcuna, leggendo I Marmi si prova l'indiscussa tentazione di voler scardinare il presente, resettare l'egemonia della globalizzazione e far tornare le vecchie abitudini, nonché gli antichi modi pensare e vivere, in auge. I vecchi dicono ancora oggi “Si stava meglio quando si stava peggio” e leggendo il Cecchini e il Campani si pensa proprio sia vero. Aldilà del noir, della bravura e del talento indiscutibile degli autori nel narrare, nel citare versetti in latino, facendo trasparire una cultura che raramente, nei tempi moderni, è facilmente ravvisabile negli autori contemporanei, ciò che davvero cattura del romanzo è la dignità del popolo italiano che si respira. Che fine ha fatto la gente che popolava il nostro paese? Le convinzioni, le tradizioni... Tutto perduto in una nostalgica storia post e prebellica. Ci sarebbero innumerevoli altre cose da dire, altri dettagli da svelare, altre angolazioni da sondare attentamente, ma non sarebbe possibile. Perché I Marmi è, come si suol dire, TANTA ROBBA, e conversarne in questa sede risulterebbe alquanto riduttivo. Ci sarebbe da analizzare il dramma nella figura del Cori, la scaltrezza nella bellezza consapevole della Giunti, la dignità e l'animosità del Settembrini, la simpatia insita nello Zipolo che, come per i personaggi fiorentini ed empolesi, possiede un dialetto, quello napoletano che lo rende, di diritto, privo di scontrosa antipatia. Descrivere dettagliatamente un romanzo simile sarebbe impresa altresì ardua anche per il linguaggio estremamente colto e raffinato che scade talvolta, e in maniera quasi perfetta nella sua puntualità, anche in frasari più dialettali, con una prosa ruvida e perfettamente rispondente alla situazione. Insomma, leggere I Marmi mi ha entusiasmato, restituendomi il gusto della lettura non per mero piacere dell'atto, ma per conoscere e bere avidamente da una fonte sempre nuova di acqua fresca e pura. Ho riscoperto la gioia di centellinare le pagine, pregustando il colpo di scena, gioendo per le vittorie e sorridendo inconsapevolmente delle digressioni saltuarie. Non posso che consigliare la lettura di questo romanzo, augurandomi e augurandovi, chissà, di partecipare a qualche presentazione dello stesso, un giorno.    

lunedì 7 aprile 2014

Il tempo stringe...



L'incanto si saperti reale



Il pensiero di avere
un movimento costante
nella mia veglia
nel mio torpore



Il sentore di poter ascoltare
con un senso interno solo mio
la tua presenza
un tuo singulto


La tua vita avulsa
dalla mia
eppure così dipendente
dal mio battito


E sapere che mi ascolti
in ogni momento
e che cullo il tuo sonno
durante il vespro


Un miracolo che non
so o posso spiegare
per il quale non esiste
parola alcuna ideata


Eppure sono un turbinio
di emozioni contrastanti
meraviglia e stupore
naturalezza e assuefazione


Saprò rinunciare a
sentirti dentro
a vederti e toccarti

invece, solo, d'immaginarti?

venerdì 4 aprile 2014

Domani è un altro giorno di Caterina Ferraresi


Domani è un altro giorno (Io Scrittore)


Carolina è una donna dalla vita normale, la cui esistenza è scandita da giornate normali, sesso coniugale normale, lavoro normale e famiglia al limite del normale. Si, perché sua madre non è proprio la consueta mamma chioccia della famiglia del Mulino Bianco che ognuno vorrebbe e sua zia Carolina, vecchietta ultranovantenne per nulla contenta della loro omonimia, nonostante le dimostri un affetto incondizionato, continua a storpiare il suo nome, collezionando, nel contempo, mariti su mariti, provando come la sua sia un'esistenza molto più piena e appagante della sua. Ma si sta' divagando. Beh, in fondo lo psicologo stesso di Carolina invita al collegamento di idee, saltando di palo in frasca, cercando di spiegare qualcosa di sé stessi, mediante associazioni a volte astruse per altri. Insomma, Carolina non è affatto preparata allo stravolgimento che il destino ha in serbo per lei, la sera del 14 dicembre, mentre serve la minestra di piselli al marito. Minestra che, da quel giorno, rimarrà per sempre l'artefice di un dolore sordo, l'oggetto su cui riversare ogni tipo di frustrazione derivante dallo scompiglio pre natalizio. “Tu, per me, hai un'altra” esclama, infatti, Carolina a suo marito, un po' per noia, un po' per gioco. “Si” ammette lui, mettendosi poi a piangere. E da qui Caterina Ferraresi svelerà cosa può accadere nella testa di una donna tradita, in fondo più da sé stessa che dal marito, in un crescendo di ironia, disarmante probabilità condita da scenari che appaiono quasi surreali, ma che non lo sono. E non lo sono perché la storia di Carolina è un po' la storia di ognuno di noi. La Ferraresi, mediante un linguaggio e un ritmo incalzanti, mai banali o tediosi, svela ogni sfaccettatura della solitudine dopo un abbandono inaspettato, la rabbia dopo il tradimento, la presa di coscienza di sé stessi, dimenticati nei meandri di una quotidianità che, sovente, prende il sopravvento su qualsiasi desiderio. I personaggi si svelano, si susseguono, rivelando, ognuno, una psicologia propria a qualsiasi lettore, come se ogni carattere sia una sfumatura di una personalità unica. La ritrosia di Sig, lo psicologo, che tende ad ascoltare i problemi altrui senza mai rivelare nulla di sé stesso, quasi schernendosi dietro alla propria professione. La debolezza di Carlo, ragazzo troppo cresciuto, costretto a diventare quasi una sorta di stalker pur di approcciare Carolina, meta del suo interesse. La superiorità di Cinzia, amante altera, in grado di modificare in tutto e per tutto il carattere mite del compagno, dimostrando quanto una donna riesca ad acquisire potere, nonostante non ne senta per nulla dentro di sé. Dimostrando, quindi, quanto la “superficie” riesca a creare mondi differenti da quelli che, per natura, sarebbero assegnati a determinate personalità se prive della classica “occasione” di apparire differenti da ciò che sono. E la scaltra e arzilla vecchietta zia Carolina, vera scheggia impazzita del romanzo, adorabile nella sua gioia di vivere, sagace nelle sue analisi dettagliate e spietate. Non si smette mai di credere nel futuro, non dovrebbe mai accadere il contrario, e sarà mediante la contagiosa ilarità della zia che Carolina si renderà conto che la vita non smette mai di creare suspence, anche quando tutto sembra irrimediabilmente stabilito, scritto, tristemente programmato. Ciò che sovente l'essere umano dimentica è che il potere di mutare la propria esistenza non è detenuto dal destino, ma da lui stesso. Il coraggio è l'unico ostacolo al perseguimento di tale scopo. E la Ferraresi, dimostrando un talento assoluto nel narrare brillantemente situazioni che risulterebbero banali se scritte nella maniera canonica, svela quanto sia importante credere nell'avvenire, venir trascinati lungo i viali dell'ignoto, mostrando quanto non sia vero il detto” chi lascia la strada vecchia per quella nuova sa quello lascia, non sa quello che trova”. Perché molto spesso ciò che si può trovare, intraprendendo un percorso nuovo, è un'avventura milioni di volte più esaltante di quella che ci si aspettava di vivere nelle condizioni di vita pregresse. Scoperta per caso, dietro segnalazione, la Ferraresi mi ha colpita per l'ironia e la freschezza che è in grado di utilizzare durante la narrazione. Non è divertente, ma ironica, e c'è una bella differenza. Non fa ridere, come un attore comico, bensì sorridere come un accorto studioso della mente umana, come uno psicologo attento e acuto. Aldilà del romanzo, quindi, ciò che stupisce è il fatto che, nonostante l'autrice sia stata segnalata e selezionata da un marchio prestigioso come “Io scrittore”, facente parte del gruppo Mauri Spagnol,  non sia stata pubblicizzata a dovere, relegando il suo talento a pochi fortunati meritevoli di essere incappati in questo talento non divulgato. Quanto ci vorrà, ancora, prima che tali autori arrivino, finalmente, alla tanto agognata luce che meritano? In un'Italia in cui anche il bimbo di 5 anni, ormai, può pubblicare il proprio lavoro, sarebbe cosa buona e giusta se chi è del mestiere iniziasse a creare dei distinguo. E la Ferraresi dovrebbe essere inserita di diritto nel gruppo degli autori meritevoli di attenzione. Decisamente consigliato a chiunque, specialmente alle donne che si apprestano a superare i quarant'anni, “Domani è un altro giorno” vi farà sorridere, ma anche e soprattutto riflettere. E di certo verrà ricordato, nel tempo, per quello scritto che donò la fiducia necessaria a credere nelle proprie possibilità, nonostante non si posseggano tutte le infinite e magiche qualità che si notano sempre negli altri e mai in sé stessi.   

giovedì 3 aprile 2014

I colori che ho dentro di Nadia Boccacci




Gemma è una donna. Fragile, introversa, ferita e, per certi versi, anche umiliata da una vita che non le ha concesso sconti. Mai, neanche una volta. Il destino, infatti, l'ha voluta abbandonata a pochi anni dalla nascita dall'unica figura in grado, e con il dovere, di impartire i primi passi nella vita. Un abbandono ingiusto, portatore di infinite patologie psicologiche che determineranno gran parte della personalità fragile della donna nel corso della sua esistenza. Perché un solo genitore non può bastare nell'asservire a un compito arduo come quello di condurre una nuova vita verso la luce la fiducia e la consapevolezza di sé tra gli altri. Un padre non può, da solo, sostituire entrambe le figure di cui un bimbo avrebbe bisogno per crescere nella maniera più sana possibile, non se l'abbandono è stato caratterizzato da un'egoistica voglia di fuga piuttosto che un'improvvisa morte, per molti versi decisamente più digeribile a un cuore in tumulto. Gemma è fragile, e come una tela di un quadro, lascia che i colori ne determinino gli stati d'animo, cercando di gettare luce su comportamenti ed emozioni che sola, forse, non sarebbe in grado di spiegare o analizzare. Ogni situazione, quindi, e ogni forte emozione assumono la tonalità che meglio si avvicina, per assonanza, a ciò che più scuote l'animo della donna, determinandone, come un caleidoscopio, le sfumature tramite le quali è possibile interpretarne la giusta scala di valutazione per poterle rimanere accanto. Ma non è semplice e soltanto un animo affine, profondamente empatico, può riuscire nell'impresa di rendere felice Gemma, preda, suo malgrado, di un'insicurezza latente che la rende simile a una bandiera scossa dal vento impetuoso del fato. Un fato, come nell'antichità, inteso come destino. E sarà attraverso i giorni e i colori di cui questi si tingeranno che Gemma percorrerà le fasi della sua vita, in maniera intimistica e psicologica, tentando differenti vie per vivere in maniera migliore, piena e, perché no? Appagante. Non è corretto lasciare al destino il potere di determinare la propria esistenza, specialmente se ogni singolo tassello della vita sembra voler dar vita a un imprevisto dopo l'altro atto alla sottomissione della felicità in favore di un dolore pressante e impossibile da contrastare. La Boccacci, con il suo “I colori che ho dentro” guida, attraverso due diversi modi di narrare, il lettore in un viaggio profondamente intimistico con il chiaro intento di trasmettere un messaggio di speranza, ben lontano dal profondo stress emotivo al quale tutti siamo a rischio di affacciarci. La vita moderna è frenetica, ricca di incongruenze, di pensieri nefasti e situazioni prive di felicità. Risulta, quindi, fin troppo semplice il desiderio di controllo, la necessità di programmare un futuro che sembra quasi prestabilito, per tentare di non soccombere, per cercare di rimanere a galla. Perché se si lascia al nero la capacità di avvolgere la propria anima, la depressione è possibile e, in maniera inquietante, unica colpevole di una fine debole e prova di lotta. La Boccacci, forse attingendo a situazioni ed esperienze personali, data la nota fortemente intimistica della narrazione, lancia un messaggio di speranza per tutti coloro che hanno bisogno di credere nella riuscita della propria personalità, e lo fa in maniera semplice, adottando un linguaggio estremamente chiaro e diretto, lineare e scorrevole, privo di dialoghi ridondanti o astrusi. “I colori che ho dentro” è un romanzo che si lascia scoprire, pagina dopo pagina, rivelando storie di amori intensi, probabili, fin troppo reali e, in alcuni casi, dannatamente sbagliati. Sbagliati ma che aiutano, se non riescono a essere letali, a comprendere cosa davvero è importante, quale dovrebbe essere il cammino verso la felice realizzazione dei propri sogni. Non rinunciando al proprio io, senza scendere a compromessi con un modo differente di essere. Soprattutto, senza cedere alla necessità, quasi impossibile da ignorare, di programmare anche l'amore, anche l'ansia, anche ciò che dovrebbe risultare estremamente semplice per ognuno di noi: vivere.