Sono finite queste feste? Ancora no?
Ancora manca il 6 gennaio? Urca, pure la calzetta... Oh beh, poco
male, i dolcetti fanno sempre bene allo spirito. Il problema
fondamentale è che la mia mente si è convinta di poter ricominciare
a dare seguito ai progetti casalinghi solo ed esclusivamente dopo le
fastidiose e stancanti feste. Cosa significa tutto ciò? Dovrei
cominciare a dipingere la cameretta del piccolo indemoniato, ma se
non finiscono le feste è impossibile solo pensarci. Dovrei dar
seguito al terzo romanzo che ho iniziato prima di Natale, ma se non
finiscono le feste... Insomma, sono impantanata in un loop mentale
dal quale è difficile uscire. Bisognerebbe forzare la mia mente ad
agire secondo canoni sociali, ma proprio non so come fare. So cosa
state pensando: ma tu un lavoro non ce l'hai? In effetti lo avrei, ma
la maternità forzata, a cui sono stata costretta fin dalle prime
battute, mi ha portata a elaborare metodi di sopravvivenza in casa.
Ragazzi, il mestiere di casalinga è difficile. Non è come le donne
lavoratrici dicono: noi facciamo entrambi i mestieri, le casalinghe
non fanno nulla e stanno sempre davanti alla tv. Non è così e
quando ascolto determinati discorsi sento le viscere rimescolarsi
tutte. Intendiamoci, io non posso proprio definirmi casalinga. Io
sono una semplice donna incinta costretta a casa. Ma le donne che
lavorano in casa non hanno nulla da dover restituire a quelle che
vanno sotto padrone. A star appresso alla casa si diventa pazzi.
Fosse per le camere, una persone dovrebbe star li a pulire tutti i
santi giorni in maniera più che approfondita. La polvere è
bastarda, si annida dopo solo 3 secondi che l'hai tolta da un
ripiano, e non c'è swiffer o prodotti antistatici che reggano... La
laniccia, la sporcizia in generale, i panni da lavare, stendere,
stirare... Senza contare l'economia familiare da far quadrare.
Parliamoci chiaro: quando una donna è in casa è lei che tira le
fila del conto in banca e non è semplice tirar fuori i soldi e
risparmiare nel contempo. Noi, per ora, abbiamo entrambi gli stipendi
e di problemi non ne sorgono, ma provate a immaginare quelle famiglie
monoreddito. Con dei bambini, per giunta. Non è la pigrizia a
portare le donne a stare in casa, credetemi. A casa ci si esaurisce,
non ci si riposa, quindi nessuno mi venga a dire che le casalinghe
stanno a casa perché ci sanno fare eccetera eccetera. È decisamente
più semplice andare a lavorare sotto padrone, piuttosto che essere
il padrone di sé stessi in casa. Comunque, tutto questo astruso
discorso per dirvi che sto lentamente giungendo alla fase depressiva
dell'ingabbiamento. La gente mi dice: ma esci, no? Si, ma non è la
stessa cosa. L'unica alternativa che ho trovato è stata quella di
scrivere e di leggere come una povera pazza. Perché almeno, se
nessuno ancora ha inventato il mondo che vorremmo, noi abbiamo tutti
gli strumenti per costruirlo. Con una penna e un pezzo di carta, o
più semplicemente, con un bel portatile sotto mano.
La
Casa dei Picche
Passava lì davanti ogni
giorno, per tornare a casa da scuola, e provava sempre la stessa
sensazione: brividi freddi di terrore in tutto il corpo.
Anzi... sembrava che una
frotta di formiche le camminasse tra i capelli e scendesse giù, fino
ai piedi.
Quante volte si era
grattata il capo, pensando davvero di trovare degli insetti inviati
da chissà quale entità lì presente?
Si vociferava fosse una
villa infestata dagli spiriti.
Daria non lo sapeva, ma
era quasi certa che qualcuno la fissasse da una di quelle finestre
rotte.
La casa era abbandonata,
con un grande giardino tutto intorno, incolto e devastato dal tempo e
dagli animali randagi. Grande quasi quanto due ville messe insieme,
le finestre sporche o direttamente distrutte, aveva disegnati sulle
pareti esterne tutti i segni delle carte da gioco: picche, fiori,
cuori, quadri.
Era inquietante,
specialmente per quei picche neri che sembravano inglobare la
serenità dei passanti.
Nessuno degli adulti
prestava molta attenzione a quella struttura camminando per quella
strada, ma, Daria ne era certa, quando era piccola aveva sempre
avvertito la stretta di suo padre farsi più vigorosa transitando lì
davanti.
Aveva avuto da sempre il
divieto di entrare in una qualsiasi di quelle stanze e, a detta dei
suoi genitori, perché gruppi di ragazzi satanisti compivano riti con
tanto di pentacolo e sacrifici umani.
Terrorizzata, aveva
sempre detestato passare davanti la “Casa dei Picche”, nonostante
fosse costretta ogni giorno a percorrere proprio il tragitto che
portava alla villa.
E ora eccola lì,
truccata di nero,con i capelli biondi appena freschi di piastra
fluttuanti al vento e con uno spinello in bocca a far finta di ridere
alle battute della sua comitiva.
Erano entrati nel
giardino della villa con i motorini grazie un'apertura nella rete
metallica che recintava tutta la struttura.
Guardò Roberto e cercò
di calmare il battito del suo cuore.
Era semplicemente bello,
i capelli ondulati corti e neri, occhi verde bottiglia e una fossetta
sulla guancia destra ad ogni sorriso.
Uno schianto... e lei ne
era innamorata da secoli.
Portò lo spinello alla
bocca distogliendo lo sguardo dal suo idolo e rispose con un sorriso
ad una battuta bruttissima e assai poco simpatica di Francesco circa
la personale difficoltà di vivere con i suoi genitori.
Beh, certamente vivere
costantemente nella bambagia, adorato e servito da parenti serventi e
vestire solamente capi firmati, doveva avere il suo bel disagio.
Era entrata in quel
gruppo al secondo anno di superiori e da due anni oramai usciva con
loro ogni sera.
Erano quattordici
sbandati in tutto, follemente innamorati della vita e disperatamente
alla ricerca di risposte.
Come ogni adolescente
del resto.
Sollevò il capo a
guardare le stelle nel cielo terso di fine settembre.
Sospirò, continuando il
suo solitario, e si distese con le braccia lungo il manubrio del suo
motorino, gli occhi sempre fissi al firmamento.
“A che pensi Daria?”
“Che questo posto mi
mette i brividi...”
Distolse lo sguardo dal
cielo e fissò nella direzione di Rino.
La luce delle loro torce
spandeva sul vasto giardino della villa, permettendo a Daria di poter
vedere i suoi interlocutori in tutta tranquillità e il suo segreto
amore di sottecchi ogni volta lo desiderasse.
“Non mi piace questa
casa, è inquietante. Ho sentito tante di quelle storie che solo
passare qui davanti mi mette i brividi...”
“Dai, non esagerare.
E' solo una casa abbandonata, inquietante certo, ma una villa
fatiscente. I miei, ad esempio, mi hanno sempre raccomandato di
tenermi alla larga da qui perché cade a pezzi e potrei rimanere
sepolto sotto i detriti...”
Roberto ascoltava, Daria
lo vide assorto, ma senza proferire parola.
“A me, invece, hanno
sempre detto che qui c'erano gli spiriti che mi avrebbero ucciso se
solo fossi entrata...”
Rino esplose in una
risata spontanea, risuonando nel vuoto come un rombo.
“Appunto, i fantasmi
non sono altro che i pezzi di una casa che potrebbe crollare da un
momento all'altro...”
Sara rimase in silenzio,
meditando sulla bugia che i suoi le avevano raccontato e alla quale
lei aveva sempre creduto, comunque con un certo scetticismo.
“Invece a me è stato
detto che qui ci sono delle sette...”
Silenzio.
Rino smise di ridere e
rimase in ascolto, agitato.
Tutti si voltarono verso
Daria e rimasero in ascolto.
Tutti tranne Roberto,
ancora assorto, con gli occhi rivolti al giardino.
“Mio padre mi ha detto
che qui ci sono delle persone, che adorano Satana o chissà cosa, che
fanno sacrifici umani e cose... misteriose.”
“Daria, non puoi
creder...”
“Beh, ti vedo agitato,
quindi non far finta di nulla. Non è il caso di sdrammatizzare.
Anzi...
Possiamo andare via?”
I ragazzi non risposero
subito ma un rumore li fece sobbalzare all'unisono.
Roberto si alzò dal suo
motorino e si sgranchì le gambe.
“Bene ragazzi, dopo
tutte queste storielle su spiriti e satanisti vari, io mi vado a fare
un giro nella casa...”
Rino lo fissò,
preoccupato, ma non disse nulla.
Nessuno fiatò e Roberto
si incamminò, sicuro e serio, verso l'interno della villa.
D'un tratto Daria
avvertì un alito di vento muoverle i capelli e una voce le penetrò
nella mente.
Fermalo
I brividi lungo tutto il
corpo, la ragazza si irrigidì, indecisa se muoversi verso Roberto o
rimanere lì, al sicuro tra i suoi amici nel giardino.
Il vento divenne più
intenso e crebbe in un momento. I ragazzi cominciarono a parlottare,
guardandosi spaventati.
“E se davvero c'è
qualcosa lì dentro? Qualcuno dovrebbe fermarlo...”
“Sentite, io non fermo
proprio nessuno, anzi... Sapete che vi dico? Io me ne vado. Questo
posto comincia a darmi sui nervi.”
“Si, vengo anche io,
hai ragione. Se vuole fare l'indagatore del mistero, Roberto, che se
la vedesse da solo. Io non ho tutta questa voglia di sfidare la
sorte. Poi domani mi devo anche svegliare presto...”
Uno dopo l'altro, i
ragazzi avviarono i loro motorini, incuranti di Roberto che oramai
aveva raggiunto la porta d'entrata fatiscente della villa.
“Aspettate! Non
possiamo lasciarlo da solo!”
Daria, spaventata ma
determinata a non abbandonare il suo amico, si rivolse a Rino,
afferrandolo per un braccio.
Il ragazzo si voltò
verso di lei, notando la sua espressione contrita, e strattonò la
spalla liberandosi dalla presa.
“Senti, tanto lo
sappiamo tutti che ne sei innamorata cotta. Vacci tu da lui...”
Era astio quel
sentimento che aveva notato nella sua voce?
Era gelosia?
Cos'era?
“Che stupido!” Si
voltò, agitata e nervosa, verso la casa.
Lo avrebbe fermato da
sola, se fosse stato necessario.
Ma Roberto era già
entrato.
Respirò a fondo due
volte, si portò i capelli, scossi dal vento, dietro le orecchie e si
lanciò di corsa verso la casa rallentando sulla soglia.
La porta era di legno
nero, con dei fori in alcune parti e delle bruciature in altre. Il
muro, ingiallito dal tempo, era eroso dalla pioggia e macchiato in
più punti.
La casa sembrava viva.
Daria avvertì il peso
della paura comprimerle i polmoni e il respiro farsi più flebile
ogni secondo trascorso.
“Roberto?”
L'eco della sua voce
risuonò nel buio antro del corridoio, impossibile il ragazzo non
l'avesse sentita.
Si addentrò, tremante,
all'interno, sporgendo la torcia, che aveva appena acceso, davanti i
suoi passi.
Sentì uno squittio alla
sua sinistra e puntò fulmineamente il fascio di luce in quella
direzione, scorgendo una piccola ombra nera in terra dileguarsi.
“S... sarà un topo...
Roberto?”
Il silenzio continuò a
coprire i suoi pensieri e le sue speranze.
Innervosita, avanzò e
si trovò dinnanzi una grande scalinata che portava al piano
superiore.
“Beh, una cosa è
certa. Qui le sette non ci sono, almeno non oggi. Mi avrebbero già
presa altrimenti...”
Si fermò ai piedi delle
scale e ascoltò il vento imperversare fuori le mura della villa.
Nonostante il buio,
quella casa sembrava solamente abbandonata.
“Forse ha ragione
Rino...
Si, fatto sta che di
Roberto neanche l'ombra...”
Abbandonò il corrimano
della scalinata e camminò verso sinistra, dove troneggiava una porta
a vetri, leggermente rischiarata dalla luce della luna. Afferrò la
maniglia e la girò, lentamente ma in maniera decisamente più calma
rispetto a pochi minuti prima.
Si affacciò solo con la
testa per poi spalancare il vetro ed entrare completamente nella
stanza.
Era una cucina, oramai
in disuso, con due rubinetti arrugginiti e un tavolo di legno
tarlato.
Nulla fuori dalla norma.
Respirò, rinfrancata
dalle scarse scoperte della sua esplorazione, quando avvertì un
rumore di passi al piano superiore.
Istintivamente portò il
fascio di luce verso il soffitto illuminando un vecchio lampadario in
cristallo.
Strano che nessuno fosse
mai entrato a saccheggiare i resti della villa, strano sul serio.
Perplessa e un poco
agitata, si mosse verso le scale e cominciò a salirle, avvertendo
scricchiolare le assi di legno, polverose e unte, ad ogni passo.
Il respiro si fece corto
e il cuore prese a battere velocemente nel petto.
Qualcosa non andava e
gli squittì crebbero, come se tutta la casa fosse divenuta d'un
tratto un grosso ratto grigio.
Scostò le dita dal
corrimano , con ribrezzo, e giunse alla fine della salita. Voltò a
sinistra e destra il fascio di luce quando anche la torcia la
abbandonò con un ronzio sordo.
“Cazzo! Non mi
abbandonare ora, ti prego! ROBERTO?”
Prese ad urlare il nome
del suo amico, terrorizzata e al buio. Non poteva correre, non sapeva
cosa avrebbe trovato e se veramente, come aveva detto Rino, quella
casa cadeva a pezzi, rischiava di inciampare e cadere in qualche
falla del pavimento.
Alla sola idea di
rimanere sepolta viva, esclamò un urlo di orrore e si appoggiò al
muro che sapeva essere di fronte le scale.
Qualcosa le sfiorò le
gambe e mille brividi la percorsero, facendole sgorgare calde lacrime
dagli occhi azzurri.
“ROBERTO? ADESSO
BASTA! DIMMI DOVE SEI!”
Nulla ancora.
Non osò sedersi a terra
e decise di tornare al piano inferiore, pregando di riuscire ad
uscire dalla villa sana e integra.
Allungò due dita verso
il corrimano, non trovandolo.
Corrugò la fronte
mentre una mano le afferrò la nuca.
Daria urlò, colta di
sorpresa, e cercò invano di divincolarsi.
“Sei stata brava
tesoro... Finalmente sei venuta a trovarmi. Sai da quanto attendevo
questo momento?”
Conosceva quella voce.
Impallidì.
“C... cosa stai
facendo Roberto? Io voglio andare via, lasciami andare via!”
“Vuoi andare via? Ma
tu mi ami... non è vero?”
“Voglio uscire di qui,
ti prego Roberto!”
“Sono anni che ti vedo
passare qui davanti... Desideravo da tanto poter toccare la tua pelle
candida, baciare la tua bocca calda... e...”
Il sudore colava
pietosamente dalla fronte, mescolandosi alla lacrime rapprese sulle
guance.
Cosa stava dicendo?
“Tu non sei Roberto,
chi sei?”
La voce era flebile,
quasi impercettibile, mentre la mano dalla nuca si spostava sulla
carotide, stringendo mortalmente le dita.
“Io sono Roberto, io
sono ogni persona, io sono l'eterno... sono tutto e sono niente...”
Daria cercò
disperatamente di non perdere il controllo abbandonandosi ad un
pianto disperato e parlò ancora.
“Chi sei?”
“Io?” Il ragazzo
sorrise, mentre, immobilizzando totalmente con il corpo la sua
vittima, la sfiorò con le labbra baciandone la pelle madida di
sudore.
“Io sono uno
spirito... Io sono un serial killer, io sono nato nel 1901 e da
allora attendo di averti.”
Daria chiuse gli occhi,
scossa dai singhiozzi irrefrenabili partoriti dai polmoni stretti.
“Io ti voglio e ti
avrò, poi... Poi non esisteremo più, né io né te.”
Daria scivolò a terra,
avvertendo gli squittii della casa avvicinarsi, e pregò.
La mano dell'omicida le
tappò la bocca mentre i topi le mordevano le gambe a sangue.
La luna fu oscurata
dalle nubi e un buio denso calò sulla villa scossa dai mugolii della
morte.
Lo spirito saziò i suoi
istinti e Daria spirò, nella Casa dei Picche.
Astri di paura – 0111
edizioni - 2009
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